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Contaminazioni Creative


Performers: Iacopo Braca, Matteo Ceccarelli, Claudio Cirri, Andrea Corsi, Simonetta Della Scala, con la partecipazione delle atlete di ginnastica artistica della Polisportiva Le tre Pietre di Firenze : (Sara Amazzoni, Serena Gennai,Benedetta Magnolfi, Serena Marchesini, Ilaria Micheli, Carlotta Torchiana, Agnese Zuppa) e l’intervento di Marco Simonelli.

 

Costumi e coordinamento evento: Mania Brundu.

 

Testi di: Iacopo Braca, Tommaso Chimenti, Simonetta Della Scala, Monica Pintucci, Marco Simonelli.

 

Ospiti della sede Verdi di Scandicci  via Quattro novembre il 26 giugno 2003 ore 21





 




Da sinistra: Matteo Ceccarelli, Claudio Cirri, Simonetta Della Scala, Iacopo Braca

Da sinistra: Claudio Cirri, Simonetta Della Scala, Iacopo Braca, Matteo Ceccarelli
 

Da sinistra: Simonetta Della Scala e Iacopo Braca

Atlete della polisportiva Le tre Pietre di Firenze e sullo sfondo Simonetta Della Scala

Testi

Poesie di Iacopo Braca

 

 

Sala da studio

 

Chiusi dentro scatole di cemento

imbrigliano la mente di parole narcotiche.

In preda a panico da carta istruttrice

visi trasformano il loro sorriso in gocce di occhi tristi.

Culture morte in giungle d’istruzione.

 

 

 

Profondi sub-conscio

 

Cascate di saggezza liberano la mente.

Paranoie esistenziali

spaccano

catene di problemi.

Respira

uomini danzanti.

Gioisci

uomini sconfitti.

Viaggi incontrollabili dentro organi umani.

Essere magici

indicano strade perdute.

Maglie luminose

indicano strade di costellazioni.

Mescolando sapori,

con sangue di stelle,

afferro mille voci che inondano

mari di galassie

incolonnate

sulle mie labbra.

 

 

Sballi serali

 

Macchine rincorrono

gocce di pioggia su strade

finte autogrill.

Luci spaziali

danno segnali di vite

sempre più frenetiche.

Angoli da bar

si moltiplicano in umani

da film americani.

Teppisti argentati

con voci angeliche scuotano catene

in danze popolari.

Notti insonni

cercando vie scomparse in

cilindri magici.

Rewind fisso

sulle pause mentali

di persone

svuotate

dal

nulla.

 

 

Caldi animali

 

Coperti

da semplice nylon

rincorrono bianchi

giochi.

Becchi guerrieri

scagliano il terrore

su prede indifese.

Ingabbiati

in acquai

cercano distese di ghiacci bollenti

per scaldare l’habitat.

Pinguini finti chaplin

corrono a giocare con buffe pose.

Animali a richiesta

saltano in mari profondi

di letture serali.

Testi narrativi di Tommaso Chimenti

 

ALLUCINAZIONI SALVIFICHE

Delirio tra l’io ed il me, l’allucinazione dell’essere”

 

Nato di luce, mai propria, ero il respiro di ansimanti gemiti convulsi e patologici, la voglia riscossa, la vendetta, la risoluzione dei problemi, ero l’antitesi al reale, il siffatto noncurante, il bulimico espulso per l’amore altrui. Guardati, allo specchio, nelle mani venose, nei polpacci carnosi, sei soltanto una tua proiezione, l’espressione più alta della tua contorta e pubblicitaria inventiva fantasiosa romanzesca; sei ciò che vorresti essere e nessuno, o tutti, ti diranno mai il contrario, senza però confermartelo, né sottoscriverlo, né firmarlo, né giurarlo, ma tu senti che anche gli altri ti vedono proprio così, come sei, come credi di essere, come intimamente lo specchio taroccato affumicato sulla sinistra della tua buia penombrosa, a volte penosa e/o pensosa, stanza, tra l’armadio di cenci e serate, tra la sedia di memoria immane dei culi che vi sono passati sopra: il tuo spesso, sempre, ancora. Allucinato ad occhi chiusi cerchi di ricomporre la tua immagine, come sono, come sono visto, come mi vedono, come mi hanno finora visto, che cosa hanno pensato, che hanno detto di me, davanti, dietro, per obliquo, oggi, ieri, e l’altro ancora, giudizi ingiusti, ma io li voglio, li cerco, li desidero. Allucinato chiedo con insistenza, con la forza della disperata consapevolezza che se chiudessi gli occhi per alcune settimane, senza uno specchio a portata di mano, una fotografia, un pannello autostradale, un vetro, una vetrina di moda, uno specchietto d’auto, non saprei chi sono, chi ero, chi sono diventato. Allucinato è la normale nostra condizione, del muoversi ben sapendo dove siamo, con chi abbiamo a che fare, allucinato è il calcolo freddo del comporsi, del rifare, del non dire, del non detto, del sorridere bigamo di fulgida apparenza. L’allucinazione è la realtà dove viviamo, le falsità che leggiamo e chiamiamo romanzi, le bugie che ci vengono dette che chiamiamo quotidiani, le burle in televisione invece sono apostrofate con l’anglosassonismo fiction per noi da sempre piccoli poveri esterofili. Allucinate le proiezioni, i dialoghi per strada, gli sport, allucinati, cioè invasi da talmente troppa luce da divenire lucenti come meteoriti concepibili solo dopo la collisione. L’allunaggio era allucinato o soltanto ci volevamo credere? E se ciò in cui crediamo, proprio per essere credibile e gestibile ai nostri occhi non può essere reale ma solo modificato tramite lenti magiche, filtri e pozioni deformanti, abbellenti, allora mi chiedo se la realtà è il solo frutto delle nostre collettive allucinazioni, come in un unico lungo, interminabile, prolisso gioco del telefono senza fili, senza capo né coda, dove tutti continuiamo a comportarci come crediamo che altri si comportino o come pensiamo che altri hanno detto una volta che si sarebbe dovuto fare in una tal circostanza. L’allucinazione è il credersi sensati, è il leggere e lo scrivere, la codificazione del pensiero in linee nere su fogli, veri, presunti o virtuali, bianchi, dove noi, poveri catatonici perplessi, crediamo di capire un concetto incomprensibile: ecco l’allucinazione è la normalità, il quotidiano, non la rivoluzione, non il tremendo, o extra ordinario, il super (fluo), è il credere di darsi con il dirsi, confondere il fare con il pensare di fare, è l’abominevole gioco chiamato modernità.

 

 

DOPPIO TENERSI

 

Eravamo in due come chiodi di garofano piantati in sterpi troppo alti per le nostre piccole mani che andavano filanti tra i capelli perduti in strade troppo ventose dove sbattevano no e sibilavano lontani i rimorsi.

Corsi e ricorsi storici, ma eravamo sempre e solo noi due, come grandine ci perdevamo dalle nuvole solari per ritrovarci a terra e non saper che fare, guardarsi obliqui e non dire per non essere inopportuni, ancora una volta, forse l’ultima.

E i fari gialleggiavano perenni e tu lì, scostante, vibrante, accartocciata, altera, vivida e fiera, morbosa ed orticante, a tratti bulimica di gioia tanto da vomitarmela addosso senza motivo né enfasi alcuna; straziante nei tuoi silenzi lunghi gialli come pesanti pagine di romanzi ottocenteschi, liquida quando cercavo di prenderti tra le pieghe saponose di lenzuola non stirate, mai rammendate come il nostro passato assieme.

Insieme, ancora dopo così tanto pseudo girovagare, ancora non ci eravamo persi, forse perduti lo eravamo sempre stati, ma ci nascondevamo bene tra la folla, tra altri occhi desolati dai passi cadenzati, dai ritmi subordinati a logiche a pois.

Imbarazzata tenevi la destra accanto al marciapiede colorato dalla noia del giorno appena trascorso, io stanco accanto ciondolavo in un misto di fame di desideri e malinconia nel vederti sempre compressa, indifesa, isolata ed irraggiungibile, impossibile sfiorarti; sfuggivi al contatto, cadevi giù per strada di pozzanghere acide più volentieri che avere un sussulto, un impeto da condividere, celebrare l’amplesso delle nostre sostanze iraconde, il domani raggelato nelle rughe della fronte perplessa.

“Dove sarai domani?”

“Con te”, rispondevi con un filo di voce roca impercettibile, senza timbro né intonazione, né dialetto, né inflessione.

C’eri ma non eri, non mi ricordavo mai della tua presenza rarefatta, incerta, eri il non delle negazioni, le occhiaie delle cameriere con la caffettiera in mano e tanti saluti nei denti stretti, lo specchio appannato del cesso a piastrelle, lo sguardo miope di un panorama brizzolato.

Averti, ossessione, averti, mia dannazione, averti, unica fobia, averti, mania longitudinale che tagliava ogni mia aspirazione, averti, irresistibile resistervi, averti, la calma spazientiva, averti, la gioia confluiva nel torpore, averti, calcolavo la distanza tra l’urlo e il cuore, averti per avermi, sogno cannibale, averti, della carezza solo il rumore delle mani, scivola vai via, non te ne andare, dorata ombra.

 

 

Testo narrativo di Simonetta Della Scala

 

 

Lola

 

Sera lattea di aprile. Sospensione ai neuroni, affastellamento. Ci sono dei corpi intorno, completamente indistinti. Sono dietro una barriera, sono la loro barriera. Il loro  ordine di realtà si scompagina dentro le unghie laccate di un amore lacero, escisso di cui non resta niente.

Io so di quel niente, loro no, loro parlano, mi osservano, forse temono per me.

E io sono Lola, l’embrione che non riesco a tenere dentro. Sera, latte d’aprile mi vogliono scardinare dal limen di vuoto ove mi sono collocata, per pensare a me, soltanto a quella me che potrebbe restare o non restare.

La loro normalità confusa da cere colorate, la mia follia, il mio non aderire mai, e quegli amori così violenti dentro il midollo.

Che non se ne possono andare.

 Le stalagmiti di un ennesimo maggio si volteranno ricordandomi che sono solo una tela immobile passibile, di ogni voltaggio.

 

Testi narrativi e poetici di Monica Pintucci

 

 

NUDO.

 

Un altro nudo. Nudo da camera. È immorale essere tristi. E necessario. Non
ho paura. Dico. Mi butto. Faccio. Io faccio da sola. Come mi pare. O non
faccio niente. Esaspero tutto. Bene-male. Bianco-nero. Fuggo la semplicità infinitamente preziosa – la sicurezza. E poi mi dispero. E torno qui. Nella mia
camera. Il mio studio, la mia officina. A dipingermi addosso un nudo nuovo. Per me. Accarezzo la videocamera. Poi: un non so. No. Non faccio. niente. Non riesco più. La mia pelle mi respinge. Ecco: vorrei che mi incoraggiassi a farlo. A intarsiarmi, a incidermi di sinuosi arabeschi. Spogliarmi e arrendermi alla muta. Mi sono spogliata. E ho invaso, infettato tutto. Sono ovunque. Non esco più. Da me. Avida di che? Non osservo non capisco:  non restituisco niente. Non imbratto tele. È il mio corpo, la base nuda, ma non vuole più. Non dipingo più. Lo specchio è un altare profanato. Lo specchio è distorto – o incrinato. Vorrei che mi incoraggiassi a farmi piccola e nuda e docile al pennello. Alla lametta. Al bisturi. Alla luce violata da un crudo arrendersi al niente.  No, non posso stare qui. Non posso stare da un'altra parte. Oggi in due mi hanno chiamata "signora". Cattiva signora. Mi attacco e tiro giù. Violenta scopro, violo, oltraggio, dissacro. Solo il mio nudo ci riesce. Forse puoi capirmi? Puoi forse prendermi per mano? Guidarla, la mia mano, sul mio corpo, come un chirurgo, o un esteta? Forse mi reggeresti spoglia e senza veli, spaventevole e disarmata…? O vorresti, chiederesti… un chiaroscuro?

Non dipendere. Io faccio. Da sola. E allora: non dipendo. Non studio la luce. Non intingo il pennello. Non posso spogliarmi, ti ho detto! Ho gli abiti appiccicati addosso. A volte mi accarezzo. Lo sai. A volte ti offro un pretesto. E bevi al mio corpo finché un orgasmo è l’unica via d’uscita. Non hai colpa.
Non m’interessa altro. Ridammi il mio nudo. E basta. Vai via. Via vai. Bianco-nero. Tutto-niente. Amore-indifferenza. Aspetta. Non lasciarmi sola a vergognarmi. Un attimo. Vorrei solo scorgermi un attimo dentro di te - poi dimenticarmi. Il mio specchio è rotto. Sono libera. Dimenticarmi, dimenticarti. Riposarmi. Io faccio da sola. E sono stanca. Lo dico proprio a te. Spero non ti sembri strano.

 

 

GABBIE & VOLIERE.

Lettera alla menta a un amante distratto.

 

Magari pensi che scriverti sia più facile e più furbo. E sbagli subito, amore mio. Posso solo dirti che la penna pesa nella mano sudata, il foglio bianco minaccia di volarsene via ad ogni alito di vento, la coscienza morde e demorde, crolla e si fa forza, vigile contro ogni “furbo” tentativo d’insincerità.

Pensavo che ti avrei sempre trattato come in quei primi giorni, quando mi dicesti che eri malato. Capii dopo la mirata premura: trattavasi di malattia venerea.

Sapevo poco o nulla di te, ma ti vedevo sofferente, e dopo la verità del dolore, le tue carezze erano meno ruffiane, e più efficaci. E più impellente diventava il bisogno d’amare. Paura e dolore alla lunga attenuano l’innato egoismo umano, filtrano la percezione della propria vezzeggiata individualità. Si vuole comunione, fusione, armonia di menti e corpi. Ignari del dopo, grati dell’ignoranza. E così, senza eccessivi stiramenti cerebrali, troviamo finalmente il modo di allontanare lo spettro osceno della solitudine, di zittire le voci di un delirio atavico e malsano.

 

Usciti dal locale fumoso, entriamo (io, a malincuore) nella macchina fredda odorosa di Arbre Magique e caramelle alla menta. Tutte, rigorosamente, alla menta. Io odio la menta, e malsopporto anche i peluche sul cruscotto.

Vengo subito strigliata a dovere per una triviale dimenticanza (il regalo per mammà: la tua), e suppongo, sotto-sotto, anche per la mia espressione così lontana dall’estasi di Cupido nonostante la raggiunta intimità alla menta. Ora penso – è così facile farmi cambiare idea – che in fondo non per cattiveria mi strigliavi così malamente. Forse eri sovreccitato dalla solennità del momento (la raggiunta intimità mentolata), forse ti aveva scombussolato l’orrendo baccanale del locale appena lasciato. Forse ti vergognavi di avere una macchina dove poter creare una situazione d’intimità (alla menta), quando non perdevi occasione per denigrare quegli innamoratini al pan-di-zucchero che credono naturale che tutto il mondo si pieghi alle loro appiccicose esigenze. Mi sentivi scontata. Mi vedevi prostrata ai tuoi piedi, in un bosco di sempreverdi Arbre Magique, con soffici prati dove scoparmi con agio, respirando aria salubre, vagamente odorosa di menta. Tutto troppo facile, per te. Quasi: noioso.

 

Quando piango sono “due palle”, amore mio, ma quando rido mi guardi strano, direi quasi accigliato, e scatta in me il senso di colpa. Per cosa? Una risata? Io, donna vissuta e emancipata? Sì, pare strano anche a me. Ti accigli soprattutto quando rido e non siamo soli, e non sei l’ultimo ad aver parlato. La mia scomposta ilarità di seguito alla battuta di qualcun altro ti turba non poco. Direi che ti sfregia. Sfregiato da un ghigno.

Spero che verrò sempre perdonata. Ma non pretendere che mi senta del tutto innocente. Sono ecumenicamente sensibile, questo il mio più grande difetto. E non proprio fedele.

Allora merito una punizione, vero? Dimmelo. Ho trasgredito, e ho paura.

E quando ho paura, riprometto sempre a me stessa che se mi accorgerò di subire la tua presenza e di avere la pelle troppo livida, troverò il garbato modo di fartelo capire prima di tagliare la corda, spiccare il volo - e via! Dovrò anche trovare il coraggio di rivedere tutto, tutta la vita che mi resta da vivere, in una prospettiva che non ti comprenda. Il tutto volando: mica uno scherzo!

La cruda verità è che con il passare del tempo crescerà la paura, e all’apice del terrore capirò di stare crescendo in uno spazio troppo angusto, in una gabbietta, in una serra per tulipani, ma avrò ormai le radici bloccate, saldamente conficcate per terra, e a nulla mi servirà la ritrovata consapevolezza.

(Mi sento fisiologicamente votata al martirio.)

Sai che parlo poco, e che raramente suono convinta di quello che dico. Ma scrivere è diverso. Qui posso urlarti il tuo dovere di non fare commenti sprezzanti sulla mia mollezza di nervi e carattere, il tuo sacrosanto dovere di non approfittarne, qui posso alzare la voce calcando la penna sul foglio senza rischiare lividi o verbali strigliate.

Ma pensa te! In un mondo più giusto, le persone come me dovrebbero avere orgasmi su orgasmi. E nulla da temere, nemmeno da un uomo pronto a dare tutto.

Sì, potrei dire di te che sei, appunto, forse anche pronto a darti completamente, ma è certo che prima vuoi accettarti se riceverai tutto a tua volta. E io non capisco nemmeno bene se il “tutto” mio ti basta e ti appaga. Non saprei dire in sincerità se ricerchi in segreto il “tutto” di altre donne, uomini, animali...

Non sono un segugio. (È un male?) Mi sento più prossima a una tartaruga rovesciata sul dorso, in questo storico momento. Con le squamose, schifose zampette brancolanti nell’aria, a cercarti. 

Rispondi.

Una guarita.

 

 

Lasciami qui,

lasciami stare,

lasciami così,

non dire una parola

che non sia d’amore.

 

G.L. Ferretti / “Annarella”

 

 

 

Leggero colpo di tosse.

- Quali scrittori ti piacciono, ... perché leggi tanto, no?

-...Pirandello...

Altro colpetto, frustatina al cavallo.

- ...Calvino...

- Calvino meno, vero...?

- ...n-no, perché, scusa...? Non piace, a lei...?

Silenzio.

 

Chiaramente Lui pensava che la raffinata e spietata classicità di Calvino non potessero ragionevolmente intrigarla quanto scissioni e moltiplicazioni pirandelliane. Deformazione professionale. Questione di atmosfere. Physique du rôle. Lui, naturalmente, rispose che amava moltissimo Calvino. Lo amava adesso, seduto un po’ di sbieco sulla poltroncina girevole, gli occhietti ticchettanti dietro alle lenti spesse, rassicuranti. Parlava e Lei osservava, più che ascoltare. Ma ascoltava anche, forse con minore trasporto. E a volte rubava al volto di Lui un’espressione divertita, solitamente – credeva – legata a un suo maldestro tentativo d’insincerità. Altre volte, Lui sembrava visibilmente a disagio, sinceramente preoccupato. Altre volte ancora, si accendeva una sigaretta, scendeva in jeans dall’agorà e si pronunciava in modo squisitamente accorto, delicato, teneramente solidale, quasi: paterno. Ricostruirsi davanti a Lui: ridicolo, Lei pensava, agli albori sfiduciati di tutta questa storia. Troppo faticoso, dispendioso, umiliante.

Il Dottore e la Signorina: a parte dondolarsi e ciondolare sulle ruvide poltroncine girevoli color verde pisello spezzettando sadici vergine carta ambulatoriale e brancicando bocconi di passato e sospirando fumetti di futuro – e, intercalando citazioni raramente fedeli all’originale, giocare ai letterati disallineati -, inevitabilmente scivolavano in chiacchiere più o meno amene sulla vita e sulla morte, sulla felicità come morte-pro-rinascita-e-progresso, autogratificazione e consapevolezza dei propri limiti. Ovvero, Lei - più diligente o più ansiosa, certo più tragicamente coinvolta - lo imbeccava con monosillabi sussurrati in tono di angelico, rarefatto imbarazzo, un po’ da camera ardente, e a Lui toccava poi riordinarli motivarli e incastrarli nel mosaico: un quadro possibilmente governabile e rassicurante. Ma - certo - non sempre Lui ne aveva la voglia, o la capacità, o la forza. E forse Lei appariva allora infantilmente imbronciata, imbozzolata, paralizzata in un silenzio altero e capriccioso; forse non capiva che a quel punto, semplicemente, altro non le restava che provare ad annullarsi, in Lui e nella sua incontestabile autorità. Al riparo dagli spifferi, finalmente pacificata. Lasciando che il mosaico si disgregasse ogni volta, inesorabile, sotto i loro occhi.

 

Quando poi, alla fine, mi hai detto che potevo andare avanti da sola, SENZA DI TE, mi sembrò un’assurdità, un’insensata crudeltà, volendo proprio fare uno sforzo di lungimiranza: una sicurezza superflua. Perché io lasciavo parlare te, e in questo ero tranquilla, sapevo che non mi avresti filtrato attraverso il trito melenso insolente quà-quà del profano. Dentro di me davvero speravo che con scrupolo scientifico e un bianco cavallo alato mi avresti sollevato fino alla tua superba razionalità, e alla pace dei sensi, insomma: alla radura verde del mio meritato riposo. Distese d’erba secca e profumata. Da sdraiarcisi sopra. Da fumare.

Nell’erba dell’oblio e nella tua scienza soprattutto confidavo. Eri l’eletto, e il portavoce, ma non sapevi assaporare la portata rivoluzionaria del nostro connubio, e con finta modestia o magari per stanchezza (povero caro, non era nelle mie intenzioni stremarti) rinunciavi al tuo potentissimo ruolo, e non era proprio il caso, perché mi piacevi, e mi piaceva che fossero le tue mani a comporre il mio mosaico, a plasmarmi, contenermi. Mi lasciavi da “guarita” quando ancora dovevo istruire una vocina troppo acuta e mal sopportabile, troppo melensa, troppo bambina: troppo scontata. Dovevo ancora imparare a sedere dritta gomiti sul tavolo e sguardo alto e fiero, a filtrarmi da sola, a fidarmi del te in me. Molto astratto. Invece, molto concreto e sorridente “vai pure” mi hai detto, o hai pensato, vai e portati dietro la tua stima interessata e appiccicosa, non ti ucciderà, non ti preoccupare, magari ti aiuterà a crescere..., e se vuoi puoi passare a farmi un saluto, ogni tanto…”

 

Sindrome da abbandono, niente di più volgarmente classico. Solenne stretta di mano per suggellare l’addio e coronare il presunto successo di Lui, che indossa jeans troppo aderenti e blu per quella stanzetta illuminata a giorno e arredata di bianco – eccezion fatta per le poltrone verde pisello. E Lei, un occhio umano alla patta, deve infine accettare il fatto di non essere speciale, e di essere una guarita (c’è parola più sudicia?).

 

“Non ti eri accorto che ormai calcolavo al millimetro le risposte a seconda che ti volessi più o meno apprensivo e premuroso, più o meno complice, più o meno severo? E ora mi dicevi sorridendo che ero libera. Libera? Un bel niente avevi capito. Di me volevo liberarmi. E così sia.”

 

Niente, questo messaggio non sapeva come raggiungerlo, come intaccare l’abito di Lui, scuoterne la polvere acre del freddo professionista. E una parte di Lei – quella sognante, quella bambina? - è sempre lì, nell’asettico, asfissiante ambulatorio, in sala d’attesa, imbronciata impotente e con qualche residua aspettativa, qualche trama da tessere, qualche amo da gettare. Separazione dolorosa ma necessaria? Per chi, o cosa? Di seguito pensava spesso che una signorina che si comporta così, spogliandosi di ogni briciola di dignità – anche se forse in pochi l’hanno notato, evviva la TV! – per vestire i panni dell’afflitta Penelope di turno, non ha proprio diritto di vivere. E così, un rozzo sillogismo elaborato in un attimo d’affaticamento alla cassa di un ipermercato distruggeva un mosaico costato migliaia di giravolte nelle poltroncine verde pisello.

 

“Facevi il professionale, il distaccato, per incitarmi al grande salto. Io preferisco parlare di sorpasso. Io che mi sorpasso. La mia candida utopia: l’avevi forse scorta? No, certo che no. E la rigidità del tuo atteggiarti mi faceva terribilmente incazzare, e te ne trovavo di difetti, perché proprio non potevi permetterti di allontanarmi così, perché ti nutrivi delle mie intime sconnessioni, scrutavi impietoso nelle crepe più oscene e forse anche ti cibavi un po’ di quella sofferenza così a portata di mano, quasi esorcismo di altri dolori. Perché percepivi la cura, e ti faceva bene, non puoi negarlo. Forse cercavi solo conferme professionali e spunti originali, idee che emergessero dal piatto brontolio quotidiano, eri testardo e in fondo prevedibile, sensibile, sì, ma capacissimo di ferire... Io oscillavo secondo i tuoi sismi: per sopravvivenza, sarà pur lecito dubitare. E i pensieri testavano il tono della tua voce e si perdevano nel potenziale significato dei tuoi gesti, nel potenziale numero dei tuoi ruoli... A volte eri davvero con noi, noi altri pronti a socializzare nella mesta sala d’aspetto dell’ambulatorio, mobilia rigorosamente grigia, forse anti-eccitante, rete di sicurezza per deliranti voli pindarici; noi un po’ irritati dai tuoi caffè furtivi che ci inchiodavano alle scomode poltroncine di plastica grigia per altri lunghissimi minuti di attesa, ebeti e vergognosi della palese dipendenza che perpetuavi, volendolo o no, tuttora non so dirlo.  Noi ingombranti e farfuglianti. Schizzati e frenati, ripresi per i capelli e ributtati nella mischia. Spostati, spolverati e risistemati in vetrina. Sul fondo della vetrina. E c’era chi aspettava il padre morto, chi una gamba, chi l’amante redento, chi la logica ricompensa per una vita di stenti. Poi c’erano altre e altri, più pacati o troppo sbattuti per elaborate esternazioni, che semplicemente aspettavano il Dottore - perché questo eri, le altre volte -, e i suoi artifici. Noi ti proteggevamo da tutto e tutti con sguardi davvero appiccicosi, da madri ansiose, fortemente mediterranee. E ci facevi penare non poco. Arrivavi sempre un po’ prima o un po’ dopo di noi, guizzando nella tua stanza come una lucertola in camice. Io – all’inizio – ribollivo. E poi uscivo fuori e facevo le cose più stupide, rientravo e ti dicevo le cose più stupide…: insomma, sarò anche psicolabile, ma mica tutti sono in grado di mettersi in gioco così. Semplicemente, perché rischi le penne.”

 

Se lui non esistesse più, se fosse stato inghiottito dal Nulla, sarebbe forse colpa di lei, volutasi sgravare del peso di mendicare attenzione, esporre la debolezza e lottare con la vergogna: prima di capire che di tutt’altro avrebbe potuto trattarsi. Se lei gli avesse dato retta e lo avesse lasciato in pace. Se avesse ceduto all’orgoglio che aveva sempre creduto assente dal proprio pedigree e non avesse più messo piede e testa in quei luoghi. Forse altri e altre gli sarebbero rimasti fedeli. Ma come avrebbe potuto Lui, in quella stanzetta bianca accecante, cambiare così tanto da poter fare a meno di Lei, delle sue sospirose imbeccate, dei suoi silenzi?

La Signorina disperava e doveva ancora incontrare quei personaggi improbabili di film altrettanto inverosimili che si convertono nel giro di una battuta illuminante e fortemente ritmata, con metamorfosi di voce e di sguardo, e improvvisamente sono disposti a dare la vita per il prossimo, non importa quanto sudicio, o – eventualmente - a fottere la madre. Ad ogni modo, in assoluta coerenza con la sua personale candida utopia, Lei raccolse l’ambiguo invito e tornò effettivamente a trovarlo, il suo protetto, tutta intera e ben zavorrata.

E dopo?

Dopo manciate di mesi di solitario abuso di gelato e benzodiazepine - da parte di entrambi –, il Dottore e la Signorina uscirono dai rispettivi loculi per divenire qualcosa come fidati compagni di vita, uniti nella coda alla cassa di affaticanti ipermercati, nei momenti di stanchezza e in quelli di scarsa autostima, scrutandosi reciprocamente nelle crepe dell’anima – almeno per il primo semestre di convivenza.

Poi Lei si irrobustì, e Lui invecchiò troppo in fretta.

 

“Cento per cento non ricordi nemmeno una delle cose che mi hai detto in quell’ambulatorio alienante, inospitale. Io le ricordo quasi tutte (diciamo: un ottantanove per cento). Le mie sporadiche battute, invece, non le ricordo. Ricordo bene, invece, il tuo tono intransigente, e quel leggiadro commento sull’ironia, che spesso funzionerebbe come ottimo rifugio per i timidi: touché?”

 

 

 

84 CHILI DI RETROMARCE.

(Metacronaca amorosa)

 

Ritratto di un uomo nel tardo pomeriggio. Prima di uscire.

 

Che profumo le piacerà?

Mah.

Esco dal bagno. Mai appresa l’arte del rimirarsi davanti allo specchio alla ricerca del particolare che stona, tradisce, esco mentre ancora mi chiedo cosa potrà mai piacerle fisicamente di me, cosa potrei migliorare, a parte cercare di radermi meglio, che forse gioverebbe… - e manca meno di un’ora. Uscito dal bagno. Musica: volgare, direi. Sempre aperte tutte le porte in questo asilo nido domestico.

“Ma non lo vedi che ti casca quella cazzo di sigaretta…?”

Due occhi assolutamente preparati, la mano non si muove, mi sento quasi scottato a distanza dal tizzone rosso in bilico sull’orlo del divano, sigaretta mollemente appoggiata tra ossuto indice e ossuto medio, quasi perfettamente parallela alla sofferta moquette che riveste quasi tutte le superfici calpestabili del nostro atipico asilo per adulti maturi e consenzienti. Guardo ansioso per terra, nessuna traccia di cenere, tutto statico e subdolo e anche ambiguamente minaccioso, come quando la goccia non scende in una notte di eclatante insonnia prima di una giornata di ordinario merdoso lavoro. Nessun rispetto per la paterna apprensione che mi sono spalmato sulla faccia insieme a due dita di fondotinta opaco.

Odio i musical. Si canta e si balla e non si può parlare come si potrebbe anche fare - sigarette permettendo – e questo mi angoscia in maniera indicibile: rabbia. E così, dolcemente e rabbiosamente, finisce che in questa merda di casa-asilo non si parla, non si chiudono le porte, si può solo guardare, al massimo urlare – di cantare non se ne parla proprio, siamo ansiosi, tremuli e stonati - e picchiettare con le dita sul tavolo al ritmo delle proprie inquietudini. O sedere facendo saltellare nevrotica la gamba, sfogliando il giornale o smistando la corrispondenza. Aria gelata. Erezione dei peli del braccio. Tristezza infinita.

 

O-plà. Si alza, sempre preparatissima e spiazzante. Passandomi accanto riesce a staccare il cavo del computer con la ciabatta azzurrina. Molle. Strascicata. Non ha ossa la creatura. E zac. Perso il lavoro di ore. Non apro bocca. Anch’io preparato, penso, imperturbabile aspetto di sbranarla. Poteva andar peggio. Come no. Osservo laterale. Corridoio cucina mensola, tazza rotta. Naturale. Mi risento quasi per la banalità. Per lo spreco di energia. Per la tazza anche, un po’. Di maman. Mi alleggerisco subito nei miei segreti propositi. Superiore. Spengo la tv invece di alzare il volume. Per farle capire che sono altrettanto preparato e concentrato e pronto a saltarle al collo. Vampiresco. Quasi le sette. Zitto, mentre la creatura studia, si arrovella per trovare una gabbia migliore delle uniche armi che le rimangono: urli e coltelli. Tutto cerebrale, mi concedo di pensare a quanto è patetico tutto ‘sto teatrino. E a quanto è innaturale e pesante la mia instancabile, strenuamente logica narrazione in prima persona. Ma ormai ho iniziato, ci ho perso delle ore, delle notti, ho perso altre cose e sono scampato a tante altre, fino a decidere quasi pacificato che tanto valeva tenersi questa ossessione, quella di cronista muto e incazzato che digita e ‘salva’. Originale? Non direi. E sono indubbiamente, terribilmente incazzato per quello che ho perso grazie a un abile colpo di ciabatta. Mi vesto, con un occhio al cassetto dei coltelli, uno al computer muto miseramente amputato e tutto scuro in viso, et bon, posso voglio e devo. “Riunione”, “Guarda di non farti male”, “Chiamo tua mamma?”, ho già spento la luce e non c’è computer a illuminare il tavolo e questo mi intristisce, ma il buio anche mi conforta, perché certo la visione di me ventiquattrore telefonino e canino avvelenato le farebbe sangue. E io adesso ho fretta.

 

Chiudo la porta e cammino un po’ contrito, due tre colpi di tosse, fino all’ascensore. Scendo e esco che sono un uomo nuovo con ventiquattrore semivuota e telefonino spento. Aria. Portone, cancello, attraverso la strada, il ponte, poi a destra, chiavi, auto, cinquecento metri e son fermo. Sette e trenta. “Piccola…” Mi si sbrodolano un po’ le parole ai lati della bocca e non so come ripulirmi in fretta perché la piccola è guerriera e molto sveglia e avvezza a blandizie e doppiezze del cyber-spazio. Non la puoi adulare, né certo si lascia adescare, abbagliare dal mio abito di navigato quarantenne. Niente moine niente lusinghe niente malie: nudo come un verme davanti alla mia vispa Lara Croft sedicenne. E così, quando ci incontriamo di persona, sulle prime sono sempre nervoso e sprovveduto come un adolescente che non ha fatto i suoi conticini per bene. E la piccola coglie ogni benché vago innocente e necessario tentativo di arruffianamento. Sarà mica davvero una cyber-girl… e basta?

Ci salutiamo in modo quasi militaresco. Riassetto l’auto, mentre lei si allontana rapida a piedi.

 

Finito. E’ molto tardi, più del solito. Sfilo gli occhiali e penso che dopo aver letto la bimba riderà e poi mi guarderà compita per illudermi che sta imparando qualcosa e apprezzando tutto - ma senza sforzarsi più di tanto. Questa puttana capacità dei giovani di farti sentire un dio e un perfetto cretino in un’unica, oscena carcassa animale.

Rileggo sfogliando le stampe fresche, scambiando due parole con una certa Alina di S. Maria di Leuca (Non pervenuta: esisterà solo nella mente dei meteorologi? E… Alina, allora?) - giusto per arginare la tensione. Un posto per me sarebbe forse l’isola di Salina. A dirla tutta, m’invoglierebbe anche il Nord dell’Europa, ma la democrazia avanzata costa troppi suicidi, pare…

Mi fa tutto schifo. Non riesco nemmeno a leggere. Forma sgualcita e contratta da incallito internauta e insolenti pause di punti e simboletti in fila, tutto perfettamente in sintonia col personaggio e la situazione..: schifo. Adulto e sorridente potrei riconoscere di aver fatto la mia parte al peggio, che il tempo utile è quasi passato e le parole mi sfuggono di mano e forse continuo per inerzia o caparbietà o perché non trovo cosa più utile da fare, concretamente fare, e fingo di non sentirmi segretamente sempre più cretino davanti al mio grigio portatile sempre più labile e mutilabile, di avere senso storico e premure per i posteri… Non scherziamo, per favore. Gioco un po’ al cronista e un po’ al burattinaio, e miei fili non so più bene chi li tiene, muove, blocca. CU, Alina.

 

Qualcuno si sente stupido, perché qualcun altro malamente gliel’ha detto (in questo caso tu, cyber-bambolina, mentre leggevi con sufficienza i miei rapporti dallo spazio infinito che ci imprigiona: non hai parlato, ma lo hai di certo pensato), e sappiamo che questo strabasta a ammazzarci il morale, e allora il primo riflette - quel qualcuno che crede di starsi a cuore e non vorrebbe cullare la propria stupidità -, riflette e vorrebbe sinceramente comunicare e farsi giustizia, ma guarda un po’, non ci riesce. E allora continua a ricordare e a far parlare gli altri, quelli catturati nella Rete, e a battere indefesso sulla tastiera… - forse l’unico che si prende la briga di ascoltare osservare testimoniare… Coraggio e sincerità prima di tutto: concetti praticamente inesprimibili qui. Forse fuori luogo. Sono solo un riordinatore, uno che copia e incolla e così macchinoso ha anche la pretesa di ragionare. Butto nel cestino e ripristino, elimino cose e ne salvo altre, sono uno che deframmenta la sua porzione di realtà e riempie con saporoso arbitrio le celle rimaste vuote, i maledetti buchi neri del caso. Quindi – per igiene mentale e amor di senso, anche se è assai duro confessarlo dopo tanto umile faticoso notturno lavoro – devo dire che non ho mai veramente creduto a quello che scrivono le persone alle altre persone. I libri, ad esempio, al di là del baratto: ‘ti do questo e mi prendo di più, anche perché non so quanto mi potrai capire e aiutarmi a godere’. Ma un libro che non parli a me, non voglia redimere o ridicolizzare me o alludere con un ghigno alla mia presunta casta…, sì, potrei anche leggerlo, e pensare autonomamente sarebbe comunque possibile, e forse diventerebbe possibile anche godere. Il libro che si farà leggere e forse mi piacerà non dovrà rivolgersi a me ruffiano e volgare o disperato, ma semplicemente sapientemente esprimere quello che io per primo ho già pensato. Magari invidierei un po’ ammirato la forma sapiente, elegante, la cosmesi e la cornice, ma apprezzerei soprattutto la mia logica, e godrei del riconoscimento a me stesso. La mia saltellante fiducia e sovietica costanza hanno bisogno di simili gratificazioni, e il mio ambizioso progetto di senso si avvilirebbe presto, temo, senza l’arbitrio necessario del mosaico… Dunque: avanti.

 

Addirittura: collaborare? Ho detto, scritto questo? La mia cyber-creatura si è sottratta al progetto – e non vuole più vedermi. Ci siamo lasciati dopo una sua battuta civetta sul mio cellulare spento, a cui ho reagito con un mite sorriso di diniego e occhi al cielo in segno di insofferenza. E’ scesa dalla macchina, teatrale e compiaciuta.

Non ci vediamo più, dunque. E, per fortuna, non ero ancora riuscito a comunicare.  Sempre chiuso in casa, adesso. Non vado alle riunioni. I miei cavi litigano con le sue ciabatte, come i miei virili capelli scuri fanno a botte con i suoi pelini biondi sulla spazzola. Tanta polvere su cavi ciabatte e spazzole.   

La bimba, la piccola cyber-bambolina. Mi manca. E sono molto incazzato. Geloso umiliato e tutte le emozioni del caso. Io che pensavo di vivere saggiamente al di là e al di qua della vita stessa. Di osservare e quindi vivere, e magari capire. Un’interfaccia carnale e memore. Invece, non sono un cronista, né un narratore, forse neppure un interprete. Io scrivo – digito -, ma è il caro grigio portatile che potrà – se vorrà - raccontare, tramandare… Cosa? File di e-mail sms telefonate chattate, ricordi in forma d’immagine o di sfogo loquace, vita vissuta verbalmente o muta dinanzi alla cam…: tutto accuratamente ordinato per data e partecipanti. La mia buona, evoluta coscienza non ha fatto che sommare e sommare per formare tutte quelle concatenazioni che poi chiamiamo pomposi fato, qualcosa di imperscrutabile che ho voluto fermare su un nastro tangibile - con notevole fervore mentale, ma sempre, in qualche modo, protetto. Se la Rete mi calasse in un dramma poliziesco-psicologico (alla… Wells?), potrei ben dire che la-mia-bambolina-cibernetica-aveva-dimostrato-ancora-una-volta-di-avere-più-cervello-di-me.

E pensare che la sento così importante e vera, ora che mi basterebbe un’unghia dei suoi piedi per tranquillizzarmi. Scopro la qualità nascosta del mio amore? A vent’anni credevo che questi interrogativi non si sarebbero ripresentati al monolitico me-maturo. Per forza di cose e suggestioni. Invece: sempre prurito, perplessità, fatica. Lotta tra nervosi fili elettrici e ciabatte spampanate, faida tra Scuri e Chiari, Braunäugige vs. Blauäugige

Ora vivo a cavi scoperti, e mi ritrovo a guardare la matura interfaccia che credevo di essere  ridicolmente soccombere tra confusioni e circonvoluzioni insospettabili in una mente matematica. Ruotando e rotolando, rotolando sempre in linea retta, caparbiamente, irresistibilmente, come una sfera in moto uniforme, imperturbabile verso la fine, la spazzatura cosmica, l’accartocciamento ultimo… ma… improvvisamente, immediatamente prima dell’urto fatale: deviazione! Comando automatico. Ripristino.

 

- Che profumo le piacerà? - pensò, mentre usciva dal bagno.

 

 

 

Dieci minuti.

 

 

Deve attraversare. Deve assolutamente raggiungere l’altro lato della strada. Lui l’aspetta, di là. In piedi, di fronte alla macchina. Lei deve attraversare quella strada. Non c’è traffico, solo nebbia, tanta nebbia, e rumore di automobili in lontananza. Lei: braccia conserte e volto tirato, occhi strizzati nello sforzo di fendere la nebbia e vedere al di là, labbra schiuse. Attesa. Inizia a fare freddo. È forse un po’ troppo tardi – pensa - per un rendez-vous all’aperto.

Lui si porta all’orecchio destro il telefonino, sospira e si passa una mano tra i capelli, retrocede di qualche passo allontanandosi dall’auto, cerca l’equilibrio su una gamba, lo trova sull’altra. Inquieto. Ma non per lei che lo aspetta. In fondo, cosa sarà mai, una telefonata, che può succederle? Ci sono priorità da rispettare. Deve capirlo.

Lei sforza un po’ gli occhi e la fantasia e intuisce frammenti della telefonata e altro ancora, sente voci in falsetto e risatine, s’inventa battute sprezzanti, s’inebria di umiliazione fino a farsi girare la testa. Vorrebbe essere immobile e fiera, vorrebbe trovare una posizione comoda dove potere ostentare l’attesa ma non c’è un posto decente per sedersi, si guarda attorno e infine si accovaccia sul marciapiede. Labbra sempre aperte ad accogliere gli aliti di vento gelato, tempie che pulsano nello sforzo dell’immaginazione, nel prolungarsi ostinato delle due agonie: la strada da attraversare, l’incontro.

Un rito di passaggio? Iniziazione?

Fa freddo. 

Dieci minuti. Dieci.

Poi scatta. Qualcosa in lei di orgoglioso e antieconomico, magico e distruttivo. Fine dell’attesa, finale di partita.

Mi sembra di accartocciarmi nel traffico, di farne parte, lamiera duttile. Traffico che non c’è, o non c’era, o non mi sono accorta perché guardavo la nebbia, e oltre la nebbia c’era lui. Sì, c’era, ne sono certa, avevamo un appuntamento, all’aperto, al freddo. No, non c’è traffico, ma forse questo viavai quieto è bastato: lo scatto, e la liberazione, infine. Sento il rumore delle lamiere che si accartocciano. Si compenetrano, mi sfregano, mi sfregiano, mi punzecchiano prima di trafiggermi qua e là, lacerando strati di vestiti, poi di pelle, poi di carne… È solo... tutto un po’ attutito, per lo stordimento, l’umana delusione, il freddo. Non so. Io aspettavo. Lo aspettavo. Poi: lo scatto. Un istinto fatale.

Brulica il sangue in fermento e sbiadisce le guance, defluisce dalle mani, giù giù giù.

Non ha molto tempo.

Lui è sempre di là dalla strada. Parla, chissà con chi. Gesticola, anche.

La nebbia continua a infittirsi, il sangue si raggruma sui vetri spaccati.

 

 

Poesie di Monica Pintucci

 

 

Parli ma.

 

Parli dell’infinita dolcezza

e poi tenerezza felina

e poi ancora tanta calma paziente muta unita a impalpabile apprensione…..

…….e poi piano piano tutto il cammino a ritroso –

solo: più rapido,

meno preciso,

con più - volgare - zelo.

Per amare una donna.

Sì, invaderla.

 

Ti accolgo sterile,

ma non mi dà del tu la tua mano

se l’afferro decisa

per attraversare

- a ritroso -

il vuoto che mi hai imprigionato dentro,

che mi imprigiona.

 

 

Senza titolo 2.

 

Ti cerco,

lungo l’orlo doloroso

della pagina strappata –

nel tuo significare,

nello strappo della vita,

la vita stessa.

Respiri le parole

e le cose,

e io respiro

te,

e mi bagno di una luce complice,

che vuoi risplenda e glorifichi

tutti gli strappi

della dovuta assenza.

 

 

Poesie di Marco Simonelli

 

ARACNOGRAFIA

 

Intro

 

 

 

 

 

E’ notte che entra

nell’orecchio

 

come il re di danimarca

      fluido nel meato

 

                           sciolto in fibre

                           nella galleria

 

                           nel golfo

della giugolare   

      

                                Oscura in buio

                                            il temporale

 

l’intonaco sbrecciato

del lobo occipitale

 

 

 


 

salticida

 

 

 

 

 

Ho un ragno nella testa

che resta      (resta)      (      resta   )

 

(sotto pietra o corteccia

         cavità del suolo

 

e anche

dentro i fiori)

 

(nei ripari di solito non

stabili)

 

Con la gola attaccata ad un

neurone      annoda le sinapsi

 

con le zampe      La fune tesa

(chimica)       con calma

 

nel midollo         spinato

fino al fondo del collo

 

          Poi loro spiegarsi

di fili aereonautici

 

dal bidimensionale

         centro dell’operato


 

marienfäden

 

 

 

 

 

 

Sono lunghi adesivi

                    capelli perduti

con il vento

questi

 

fili di rocchetto

scesi qui

         fra coralli di sinapsi

(insidiati dentro

 

senza una pigione)


 

aracnoidea

 

 

 

 

 

 

Da dove cavi il succo

               spremi quell’agrume

                          (quel gheriglio)

 

risolvi il non dormire delle

madri

 

tessuto d’elastico

      a ricorprire il favo

 

Il salticida

attende   (duro e pio)

che tu      nel volo      inciampi

 

pasto non permesso

da succhiarsi

all’esterno delle ossa 


 

latrodectus’ dance

 

 

 

 

 

Ventre rosso e arancio

         la tua cintura nera

         ti avvolge come

         tratto di penna

 

mentre         ti uncini

alla parete interna

di una roccia vuota

 

Irrefrenabilmente

               rido

              un letargo ogni mattina

            e per giornate intere

le case sono casse di rumori

 

Quando prende quota

la melodia segnata

      la pancia si svuota

                      evapora il veleno

e per aria      vocali scolorite

ronzano e spariscono

come moscerini


 

volo notturno di neurottero

 

 

 

 

 

Ho rotto il guscio      Adesso

a me portare il cargo

di neuroni      sufficienti

per impollinazione

 

Me l’hanno affidato

in un bauletto

            stretto come      il

regalo di pandora

 

Non immaginavo simili

ostacoli      Nella notte

spicco un volo      diritto

      veleggio sicuro in questo

 

spazio      Ma mi ritrovo

appiccicato in colla

            catene come seta

   lui è pronto su di me

 

      la sua bocca che rompe

le mie ali di vetro

si attacca contro il ventre

mi succhia con la sua cannuccia

 

a punta         Eccomi

Sono un verde sebastiano

      colo di bianco da ogni ferita       

Il mio bagaglio resta rapito alla dogana     

 

Da qui non esco vivo


 

 

bless you

 

 

 

 

 

Adesso che dorme

nella sua tana

               in quella trappola

                              setosa e bianca

non s’aspetta d’essere visto

(macchia         scura ed evidente)

da questa sonda interna

 

L’hanno scoperto

facendomi lastre

               Lui appare città

segnata in negativo

              localizzato—

              forte da espugnare

 

Il mare      una coperta

pesante sul mio corpo

            Sul fondale inizia

l’esorcismo

 

Respiro a singhiozzi

   orizzontale come un pavimento

(l’insetticida dentro le narici)

 

un giro d’ape intorno a

melagrana         Soffre—

                  il suo brusio

                  è un’esalazione

         lo spingo fuori             con

uno starnuto         Cado dal letto

 

improvvisamente      Adesso mi

desto e       nuvole bianche

respirano il polline

di una stagionale malattia

 

I pesci sottoterra ancora vivi

      loro occhi stupiti a primavera