Max Rohr "Sempre all'alba"
Marco Giovenale,
IL SEGNO MENO, Piero Manni, Lecce 2003
Iniziare una ri/costruzione, un’anamnesi fotografica
del reale in movimento, partendo non già da quanto è stato
o avrebbe potuto essere bensì da ciò che NON ha avuto possibilità
di essere: in quanto “mancanza”, in quanto lutto, in quanto
entità sottratta. “Il segno meno” è una scrittura che procede
inversamente. Il punto neutro, lo zero, (qui registrato
oggettivamente, con una sofferta quanto efficacemente dissimulata
volontà di NON rimuovere il trauma scatenante, la perdita,
il primigenio lutto) è una dichiarazione di smarrimento
(ma Giovenale direbbe “sottrazione”) di una “forma”:
madre/mater o matrice di un discorso che avrebbe potuto
essere comunicazione ma anche “bocca”, “culla”,
“giostra”, “sapore del sangue”. Conseguentemente,
registrata l’assenza si può (ci è concesso) avventurarsi
attraverso la realtà (catartica? Catalizzatrice?) in un
moto speleologico: “reality, giù”- dice Giovenale.
Possiamo “macchinarne lettura”, possiamo scendere
non già alla radice (in quanto essa è subito dichiarata,
trovata, ammessa, esposta) ma ALLE radici/generatrici (genitrici?)
della parola, della visione, della VISTA.
Come accade in certi vinili degli anni ’70 che, se
riprodotti al contrario rivelano, nascosti nei solchi, messaggi
subliminali, Giovenale ri/suona (e fa risuonare) il suo
canto; la sua visualità dinamica si dispone in un playback
alternato, alterato dal suo stesso moto ondivago. Ciò che
infine ne emerge (e resta) è “misura di ombra” (di
quella non-luce, insomma, ricavata da un corpo che manca
nella luce); “tremare per l’astratto” è una “miseria”
che sancisce la condizione umana di chi vive (e procede)
accanto a ciò (a chi) non è, continuando a fotografare però
ciò che invece è: i “morti […] visitati/ […] dai vivi
che non possono scostarsi”; e il “profilo/sottratto”
(ultimo scatto di questo libro): il definirsi, nominarsi,
delinearsi attraverso ciò che è stato portato via.
|