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Blu Corvino Cena Spettacolo

 

 

LE DATE: mercoledì 22 ottobre 2003 Elliot Braun Bar via ponte alle mosse n 117  Firenze ore 21 ( posti a sedere 40, euro 15: cena + spettacolo, escluse bevute), venerdì 24 ottobre Caffè Storico Letterario Giubbe Rosse Piazza della Repubblica 13, Firenze, ore 20.30

 

Porpore presenta una nuovo viaggio all’interno di una cangiante performance-cena. Contaminazioni Creative Blu Corvino, estraniando gli spettatori verso una fresca e lontana dimensione spazio-temporale, indurrà a fremere di sé in un piacevole e onnipresente cosmo arcano. I performers, biglie sul blu, si daranno totalmente tra le frange estese di questo spettacolo percettivo e singolare. Lasciatevi scivolare in noi per il tempo in cui saremo, ce lo auguriamo, unica energia duttile attraverso i vostri corpi vibranti.

I performers si muoveranno nella sala in cui vi ciberete ottimamente.

Porpore esplorerà le vostre cornee, sguardi, che bramiamo, davvero, nel nostro profondo, essere numerosi.

 

Regia: Anand Taza in collaborazione con Simonetta Della Scala.

 

Testi : Iacopo Braca, Tommaso Chimenti, Simonetta Della Scala.

 

Menù della serata:  Pasta Blu Corvino, Secondo Crema di Urla, Contorno Verza, Dessert Cenci Cenciosi, Caffè Amarillo.

 

Performers:   Adriana Borgioli, Ilaria Borgioli, Simonetta Della Scala, Simone Guasti,  Giulio Mistretta,  Alberto Presutti.

 


Da sinistra Simonetta Della Scala, Simone Guasti, Giulio Mistretta, Adriana Borgioli, Alberto Presutti


Da sinistra Adriana Borgioli, Simone Guasti, Simonetta Della Scala


Da sinistra Simonetta Della Scala e Ilaria Borgioli


Alberto Presutti


Da sinistra Simone Guasti, Alberto Presutti, Simonetta Della Scala, Giulio Mistretta, Ilaria Borgioli, Adriana Borgioli

 

Testi

Poesie di Iacopo Braca

Vortici di poesia

 

 

 

Passando

 

Secondi persi dentro un barattolo

che racchiude il nostro passato.

Fermi ad aspettare

il mondo rovesciato

INCATENATO

da momenti vissuti

dentro al film della vita.

CANCELLIAMO

PERDIAMOCI

Nell’infinità di due corpi.

 

 

 

 

Manifesti di dissenso

 

Movimenti in cerca di spazi

Autogestiti,

Infinocchiati,

Automatizzati.

Persi dentro colori

di bandiere ormai MORTE.

Ideali distrutti,

sogni attaccati ad un cappio

in attesa dell’ ultimo desiderio

di mille condannati

a morte.

Fiumi.

Fiumi di folla.

Fiumi di ribellione.

Dissenso innato con gesti di sovversione.

Intenti a cambiare un mondo

inglobato.

 

 

Noi due.

 

Noi,intensi ad aspettare l’attimo,

a rincorrere parole e sogni.

A svegliarci nelle notti di pensieri

dominanti.

Noi vicini con schermi di cuori

bollenti

che scorgono

in un sangue denso di adrenalina.

Noi angeli e clown

irrazionali e bestiali,

persi nella favola della

follia.

 

 

 

Viaggi mentali

 

Colori e forme

camminano dentro la testa

formando labirinti d’interminabile pazzia.

Conchiglie,

portano,

piccioni pieni di conigli rosa

ingeriti

dentro un tubo di fantasia.

Si spengono

accendendosi ripetutamente

vene pulsanti.

Ritmi cubani,

insidiano divisioni della mente.

Un

pazzo

racchiude

un’esplosione di kaos

rendendola

frammenti sotterranei.

 

 

Bar chiusi

 

Persi in tavoli da bar

coperti

da nuvole di fumo

rinchiudono,

nelle nostre menti

giochi di complessi

neuroni.

Rinchiusi in una scatola di legno

con giornali crociati

mozziconi che assaporano

odori

di grigi colori.

Immagini,

si chiamano,

come a rincorrere

aquiloni

densi di scariche elettriche.

 

 

Feste brille

 

Fiamme

ricoprono corpi.

infreddoliti,

con mille gocce di vino

avvolgono la mente.

Musiche d’altri tempi

cucinano

salsicce danzanti.

Urla di sapore con

grida di eccitazione

sanciscono

la fine

dei tempi supplementari.

Vite intrecciate

cosparse

di sentimenti puri,

Sono,

Amici

in cerca di viaggi comuni.

 

 

Profondi sub-conscio

 

Cascate di saggezza liberano la mente.

Paranoie esistenziali

spaccano

catene di problemi.

Respira

uomini danzanti.

Gioisci

uomini sconfitti.

Viaggi incontrollabili dentro organi umani.

Essere magici

indicano strade perdute.

Maglie luminose

indicano strade di costellazioni.

Mescolando sapori,

con sangue di stelle,

afferro mille voci che inondano

mari di galassie

incolonnate

sulle mie labbra.

 

 

Sballi serali

 

Macchine rincorrono

gocce di pioggia su strade

finte autogrill.

Luci spaziali

danno segnali di vite

sempre più frenetiche.

Angoli da bar

si moltiplicano in umani

da film americani.

Teppisti argentati

con voci angeliche scuotano catene

in danze popolari.

Notti insonni

cercando vie scomparse in

cilindri magici.

Rewind fisso

sulle pause mentali

di persone

svuotate

dal

nulla.

 

Caldi animali

 

Coperti

da semplice nylon

rincorrono bianchi

giochi.

Becchi guerrieri

scagliano il terrore

su prede indifese.

Ingabbiati

in acquai

cercano distese di ghiacci bollenti

per scaldare l’habitat.

Pinguini finti chaplin

corrono a giocare con buffe pose.

Animali a richiesta

saltano in mari profondi

di letture serali.

 

 

Ipocriti pensieri

 

Persi dentro palle di cristallo

ci chiediamo

di valori ormai morti.

Ipocrisie come mercurio

salgano a dismisura in

termometri di sorrisi.

Bontà

elevate al quadrato^2

si sniffano nell’aria.

Rossi babbi

regalano

felicità giornaliera

a saldi di finta stagione.

Pranzi e cene

si colorano di cibi da faraoni

con candele

di rosso natale.

Messe quotidiane

ricordano

nascite

di buoni propositi

e bambini rivoluzionari.

Rinchiuso

in un libro

cerca di parlare

il dio della verità

inchiodato

dalla fedele strumentalizzazione.

Tutti

buoni e cari

i genitori del consumismo

coperti

dal terrorismo

degli infedeli in cerca

del vero Natale.

 

 

 

Modifica il suono

 

Due persone

ballano in un mondo fantastico.

Pianisti bagnati

di grilli

urlano note di tuoni.

Spartiti di fulmini

colorano

ruscelli di montagne lontane.

 

 

 

Mortali presenze

 

 

La clessidra della vita

indica il passaggio

di granelli di anni

nell’imbuto del tempo.

Occhi di candido terrore

aspettano

il prosciugarsi della vita.

Avvolti

da un nero mantello

abbandoniamo

carne in decomposizione

per liberarsi nella vera essenza.

Particelle di luce

rinchiudono

energie secolari senza

istituzioni di credi.

Paradisi di bontà

Inferni di perdizione

Rincarnazioni di stabilità

Purgatori d’attesa

si scaricano

dentro il water della necessita di credere-

Morti di carni

cancellano

la paura di mondi sommersi

che graffiano il cuore di lacrime di ricordi.

Ribelliamo energie fluttuanti

in costruzione nell’universo cosmico

della fantasia.

Pesanti massi marmorei

le impronte delle perdite di persone

Lontane.         Vicine.

 

Angoscie patologiche

 

Dolori formato Kamikaze

attentano alla mia felicità.

Esplode il nero silenzio

dentro le viscere

della mia mente.

Gocce

riflettono il bisogno

della vicinanza del tuo corpo.

Lottando

Riscopro le debolezze ancestrali.

Soffia

il vento della disperazione

che avvolge il letto dei ricordi.

Il grigio mattutino

risvegliato

dai rossi sorrisi

si affacciano nel cielo delle mie labbra.

Il guerriero è tornato

per incrinare

le vostre sicurezze

coprendovi di domande succulenti.

Il risveglio dopo la morte dei sensi

induce l’uomo alla ribellione.

Sventrati.

 

Testi di Tommaso Chimenti

 

VERZA

 

Siamo anche ciò che leggiamo”, disse sussurrando le lettere stampate ed incollate male nella notte su di un cartellone pubblicitario: “sono sedano e verza e Mukki latte e detersivo e macchina elettrica ed assicurazione sulla vita”, che schifo, ebbe un sussulto.

Andare ancora avanti ed incamminarsi lungo il marciapiede dell’esistenza con questo fardello al collo non era facile, grigio e nero e nubi tra il cappotto color alba di foschia e le costole integre protettive, sembrava che i passanti lo osservassero in maniera ossessiva ossequiosa ossimoro di occhiaie e denti gialli che rilucevano prendendo varie fisionomie e contorni, tramutandosi in animali feroci, in origami ridenti, in cincillà serpeggianti, ma erano soltanto sbadigli, per giunta in faccia.

Ogni passo, cadenza ritmica d’inerzia per non cadere, uno stralcio, ogni passo uno strazio, si diceva “One shot one kill”, e non era facile, non lo era per niente continuare quel viaggio a ritroso alle origini di quella malattia chiamata vita, dalla quale per guarire bisogna morire; sembrava che gli altri, i passanti, gli addetti, i commessi, i commercianti, gli autisti, gli automobilisti, le casalinghe, gli infermieri, gli studenti, gli assicuratori, i finanziatori, i terziari, i giornalisti, gli sportivi, i baristi non si rendessero conto dell’imminente eminenza che si stava proiettando come scure scura tra le ombre bislunghe opache delle frettolose freddolose gambe e collant a denari.

Sottili come lame i marciapiedi fendevano l’aria ai lati della strada, erano canali di traffico, per dirigere il transito dei pensieri ed incanalare le memorie, spostare l’immaginazione sulla falsa fantasia delle reclame, modificare le coscienze, spingere, convincere, ma lui voleva solo camminare, andare, arrivare, correre, saltare, senza sosta, senza divieto fermata.

Senza.

Andava spedito, tra le spalle pingui degli anziani con borse troppo grandi per i loro stomaci, veloce ghepardo braccato dalla fame del sogno del destino del domani del taciturno del mistero del bisogno: eliminare quella parte troppo ingombrante.

Dicembre quest’anno era arrivato senza preavvisi particolari, era passato il tenue settembre, avevamo goduto del rosso ottobre, sperato in novembre, ma sicuramente non ci attendevamo dicembre, o almeno non questo dicembre, oppure non in questo preciso modo, ma tant’è era giunto e qualcuno, sciagurato scellerato ingenuo ed infantile, gli aveva aperto la porta ed addirittura preso il soprabito e fatto accomodare tranquillamente nelle nostre case.

Timido dicembre, quasi perplesso dalle aspettative che ogni anno gli si riversano addosso, incredulo del ripetersi delle penitenze, dei martiri, dei voti, delle promesse, dei giuramenti, dei tradimenti, dei baci e dei turbamenti, dicembre colonne d’Ercole verso il nuovo mondo dell’anno prossimo, uguale, perdente, amico ferito, festoso depresso, esaltato esautorato, finto immobile, muto straziante urlo e soffio d’angoscia che delimita l’oggi dal mai più, tra le mani un po’ di fuliggine rosea e tanta dolcezza da non sapere a chi donare.

Comunque era dicembre e lui aveva passato tutto l’anno dicendosi che avrebbe dovuto farlo, ma a gennaio aveva fatto l’abbonamento in una palestra sudata, a febbraio problemi sul lavoro lo avevano distratto a lungo dai suoi lungimiranti propositi, a marzo la primavera in arrivo sul binario della tenerezza lo aveva apparentemente calmato e taciuto e placato, ad aprile un amore nascosto, pedinato, estetico, visivo lo aveva risucchiato in appostamenti e niente di fatto, maggio poi l’allergia al fieno, al polline, ai tigli, alle donne scosciate, alle chiome fluenti sulle spalle fresche, alle risa giovani in mezzo ai viali lo avevano costretto a chiudersi, recludersi, nell’eremo delle sue stanze affittate da anni con successo e succulento orgoglio, a giugno il caldo lo aveva tramortito, afflosciato, impaurito, sciupato nel volto ed i suoi zigomi sempre più sporgenti sembravano cercassero baci e labbra e trovavano solo gelido risveglio e pungenti addii, a luglio il miraggio delle onde, del mare, dell’abbronzatura, dei corpi al sole ad assorbire tumori e cancri gli impedirono di proseguire la strada, agosto passò senza quasi che il mondo ne facesse un dramma tra serrande serrate e serre morte, allarmi nella notte, finestre chiuse nei bunker chiamati ancora case popolari, tra cui anche la sua.

Settembre ed ottobre due compagni che portavano dritti a novembre di paura e fremito e poesia ed emozioni disperse nella schiena tra scapole rarefatte e desiderio di tornare ad undici mesi prima e ripercorrere tutta la trafila del nulla atteso, vano sciamare tra giornate abuliche in completa trance agonistica, mutismo e rassegnazione, del dicembre esecutivo, della fine dell’anno, del mondo, del suo.

Se l’era promesso durante l’ultimo dell’anno scorso come imposizione, sfida, salvezza dai suoi limiti, dalle corde e catene, lacci e ventagli e troppa ombra a tinte fosche e chiaroscuri decimati nella sostanza ma vivi e vegeti nella sostanza, cambiamento di vita, la morte, come delitto insoluto, mistero, felice conclusione di lunghi tristi capitoli del suo personale volume fuori catalogo in ogni scaffale, in ogni biblioteca, in ogni libreria.

Era stanco di rinunciare ai suoi propositi e gli accadimenti dell’intorno, rassicuranti e flemmatici lo acquietavano per il tempo di un battito di ciglia con rimmel alla moda, non più cotillon e coriandoli pseudo colorati, briciole per non ritrovare la casa, la strada maestra.

Era bella la sua maestra e la volle ricordare tutta, pezzo dopo pezzo, proprio oggi, analogia del caso, equivoco e casualità inconscia; stava lì sola, ligia al dovere, i compiti da correggere, sottolineare e la gola riarsa dalle urla, i polpastrelli bianchi consunti dal gesso millenario, lui l’aveva liberata dagli impegni, dagli ingorghi, dagli isterismi, i pianti dei piccoli, già cuccioli d’uomo vigliacchi e perbenisti, borghesi e falsi, calcolatori di punizioni,  minacce e ricompense, lui l’aveva sottratta al sottile gioco delle parti, dei sorrisi, dei convenevoli, del “Prego, grazie, scusi, si figuri”, l’aveva innalzata a martire, trovandole un posto instabile, meglio di niente però, nell’olimpo dei tabernacoli di candele sciupate e cera colata che disegna le tristezze, le spaventosità del respirare, del mangiare, fare, dormire.

Era un salvatore, era il.

Aveva voluto molto bene a quella signora tutta stile ed arroganza, tutta regole e vestitini consunti alle natiche sproporzionate, per questo aveva regolato i conti, reso ciò che aveva appreso, i contributi recuperati con la pensione.

Le auto sfrecciavano e nemmeno immaginavano, le pozzanghere illuminavano a tratti il cappello bianco candido vergine per coprire i capelli troppo neri che frugavano e confutavano le sue idee.

Aveva deciso di punirli.

“Mi fa male, sto bene”, soleva aggiungere dopo colpi di teatro, dopo mosse insulsamente geniali, dopo carambole ad effetto e tocchi a foglia morta, incursioni e precipitazioni varie su tutta la penisola.

“Avremo bisogno del perdono”, pupille dilatate, narici divaricate, capillari rotti e coscienza pulita come la sciarpa a tracolla.

Il perdono ancora non si poteva comprare nei supermercati o nei grandi centri commerciali, ma l’innovazione non sarebbe tardata ancora troppo a lungo prima di arrivare sulle nostre tavole imbandite di banditi quotidiani.

Un passo, le scarpe nuove, un passo, ricordo la moquette gialla che lussuria, un passo, l’odore del parquet levigato e lucidato, un passo, le mura lisce di cotone e fiocchi d’avena, un passo, patate fritte d’unto e d’amore incolume, un passo, l’allegria putrida di sere di cristallo, un passo, il lavoro da finire, un passo, i vestiti alla moda, un passo, luci accese e spente ad intermittenza, un passo, sibilo e allarme e tuono e fischio e cumulo di gente e tumulo progettato.

“Disperato ma non nichilista” gli piaceva ripetersi come disco rotto in una balera riminese anni ’70, “hai da accendere” una voce fuori campo lunga quanto un sorriso hollywoodiano, perplesso per tanta confidenza allungò la mano in cerca di qualcosa da tendere che non fosse il suo odio iracondo, racimolò un po’ di buon senso e strappandosi la lingua a morsi tirò un sospiro come a dire “Se avessi potuto accendere, sarei stato Nerone”, di soppiatto, senza occhi nelle orbite si allontanava coi pensieri bambini, le gambe molli, il freddo nelle orecchie che echeggiavano i pack polari, cubi di acqua imbevibili in forma conica come sogni alla deriva, pelo sullo stomaco e giorni bianchi come ieri, come domani, come se fosse luce, all’infinito, sempre, ancora.

Il tizio lo guardava ancora, una moto rombò alle loro spalle scadenti afflosciate con la forza di gravità e della depressione al suolo d’asfalto e passi con tacchi a spillo cerulei; lui e l’altro, simili?

 “Chi sei”, pensò, “Nessuno” disse l’altro talmente piano da essere udito.

Frugò ancora le tasche, le mani, la libido cresciuta all’istante, sincopatica sintomatica eufemistica irrazionale lucida scaltra eccitazione giovanile.

Un guizzo sulla pelle, pori aperti a colmare la distanza, avrebbe voluto, avrebbe dovuto, avrebbe almeno potuto.

Guardò oltre, il sottopassaggio era a tiro, a portata, un attimo e sarebbero stati soli, con il mondo furioso fuori, all’esterno delle viscere che sognava trafugate, defunte e calde, prorompenti e succose, lussuriose appetitose, infrangibili e delicate essenze di terra e muschio, odore di maschio.

“Ti risparmio il vedermi con la faccia di traverso e gli occhi che sicuramente avrebbero ingiustamente chiestomi il perché, ti risparmio la fatica del capire, il subbuglio intestinale, il dolore di non sentire le mie mute spiegazioni vuote, ti risparmio i discorsi e le convinzioni, ti salvo dal malessere del primo caldo colpo, ti salvo dal crederti quando ormai non sarai più, ti osservo solo adesso e ciò mi basta per averti già eliminato da me, diverso dissimile distante disomogeneo, disabile”.

L’altro già lo amava e quindi lo lasciò al suo cammino da lupo nella neve di tormenta e tormento, smarrimento e odore rancido di Mac Donalds.

Sembrava lontano da ciò che avrebbe voluto dire, mille anni in controluce tra specchi sprecati e vetrate e canali di bagliori ad osservare gli altri intenti a fare, camminare, andare, ed ora che era parte del grande ingranaggio mugugnava lamentoso, cercava le virgole e la punteggiatura mancante, la trama inconsistente di acrilico, i dialoghi in polistirolo mancanti, i versi manchevoli di spessore, i capoversi d’alluminio e poliestere, le sicurezze rancorose e i lacci alle scarpe troppo strette per far affluire il sangue nelle parti basse.

Seguiva una linea certa e sincera, scalfita da tamburi di guerra, nelle dieci dita che giocherellavano ignare come rosario di legno d’acero pugliese, nelle dieci unghie limate e spigolose che segnavano il limite tra sé e l’esterno, tra le dieci falangi che collegavano stanche il pensiero e l’azione, tra le decine di peli irti che sudavano e fremevano, gemendo impulsi e acronime situazioni.

“Finisco il lavoro mai cominciato”, inalò lo smog acidamente critico nei suoi confronti e si distaccò nuovamente dal terreno che gli incollava suole di cuoio bovino, come i suoi occhi raglianti, e volontà dimentica, al rallentatore correva verso la conoscenza, la sapienza, il motivo incognito, la ics di ogni quesito astruso, il fine che mai giustificava i mezzi, lo strumento del destino, la bocca della verità, il silenzio di milioni di battiti all’unisono, lo scalpitio di appiccicaticci dettagli e denti battenti bandiera panamense.

Si accorse di non essere solo.

Un ombra squallida lo seguiva da tempo immemore, voleva farla sparire, cancellarla con una mano di vernice, imbiancarla con sobria proprietà linguistica, affascinarla e tentarla con argomentazioni seriose, manifestare il proprio più intimo disprezzo, godere della sua agonia, respirare furente il metano dei tubi di scarico e fumo giallo di bile conclamata e supinamente sodomizzata.

Almeno per oggi, però, avrebbe lasciato correre, disprezzandola come ogni alba che splendeva, o almeno tentava di farlo, come ogni sera quando moriva un altro sole destinato a nuove galassie, ed uno più vecchio, più saturo, più scadente faceva il suo ingresso nel palcoscenico raggiante di pupille di pubblico che più si emozionava alle gesta della natura miracolosa e misericordiosa.

“Santo cielo”, bestemmiò basico.

Aveva ancora molto cammino da fare, altri marciapiedi lo attendevano con i loro trucchi ed i loro sotterfugi, i sottopassaggi, le strettoie, i passanti che lo traevano volontariamente in inganno, il game over che si avvicinava, senza più frecce al proprio arco lo destabilizzava oltre modo, la faretra vuota gli indicava che di munizioni ne aveva già spese abbastanza, era l’ora dell’ingegno subdolo ed infangante, basta delizie e bon bon, fiori ed opere di bene li voleva lasciare al becchino grigio che fumava insolente sopra una divisa che gli stava a pelle, vista la morte che gli correva in faccia, nelle orbite che non promettevano niente di buono.

Il vento lo respingeva e di colpo lo accoglieva, lo fletteva e lo spingeva in una danza stonata, flessuosa e sessuale, satura e familiare, numeri e coreografie cicliche disegnate per la prova generale che si apprestava a compiere, come da copione, regolarmente registrato, concepimento, anagrafe, studi, pallone, anche sentimenti perché no, rughe e colline in fiore, i rumori sempre più forti, una cassa a chiudere tutto, racchiudere i sorrisi e le sconfitte, gli applausi e i signorsì, le commedie e le fantasie, le sillabe circoscritte e le analisi qualunquiste.

In un tempo senza luce avrebbe torturato il buio, in quel tempo gli bastava arrovellarsi  e sfinirsi di congetture mielose e confetture rachitiche, di ghigni deturpanti  e turbe detergenti.

“Chiamami, voglio sentirmi”, gli aveva detto l’ultima volta sua madre per telefono, lui, obbligata estensione della solitudine genetica della curva della vita, del flusso di coscienza denominato amore, accolse acconsentendo.

La cornetta pesava come roccia serena, lui che non lo era mai stato, cornee e tasti per dirsi virtualità, raccontarsi di tende colorate fini come l’Africa, di lampade a rischiarare l’avvenire insulso, di tappeti a proteggere l’armonia di setole e calze a rete profumate di piedi e pelle e carne e corpo e polpa e carnagione e cacciagione selvatica e fresca di campagna.

In questo gioco senza vie d’uscite, la fuga era subordinata all’ordine ed al dovere, al prima ed al quando, perché il come ed il dove non li aveva mai conosciuti: inghiottì l’ultima dose di raziocinio delirantemente conformista e, forma e sostanza, contenuti e fiocchi scintillanti, riccioli bruni e profondità marine, l’imo ed il cielo, la frenesia ed il contatto, il sesso e l’abbeveratoio, fusi come termiti di quercia, uniti come olio e vino nello stesso recipiente traboccante tra labbra usate impure.

Dal suo volto di spine a ventaglio brulicavano idee e compromessi fattivi e codici a sonagli, emozioni a ritroso e calli di muratori impavidi su travi appuntite di ferro, ruggine e saliva aspra e solida, verde e lacrimosa, deplorevole e rateizzata.

Doveva solo capire, era lì per questo, sapere il senso e l’assonanza, riconoscere il suono e l’assolo, l’armonia dei fendenti coperti di strazio e silenti, dormire in un caldo palmo di bruma, l’allegria di pasticci di membra e grigliate di sonanti tintinnii di rimproveri sotto forma di lesioni, parole con zaini di percosse al seguito, lettere con troppe sillabe ad ingiuriarne il significato, invalidarne le prove, contorcere l’abisso d’eterno gravitazionale.

Aveva ancora negli occhi le mani che stridevano lavagne immobili e vetrate di finestre grattugiate, fuori la libertà bambina, il soffio del vento ingrato, le foglie mistiche a percuotere il terreno succube ed insoddisfatto, prostituto della natura, prostrato ai suoi scheletrici piedi di farina di castagne ed acqua dolce di fiume in piena: il terremoto emotivo lo coglieva a freddo, altre volte gli era capitato, a stento si riprendeva, torpore e sdegno catartico, il rosso acceso di caminetti arsi da legna fresca e scoppiettante di feconda fragilità.

Ma era ancora lui, lui il gioco, lui l’azione, lui le pagine a venire, lui il discorso, lui il pugnale pugnace, lui il passo e la desolazione, lui l’artrite e le catacombe, lui l’afflusso ed il dileguarsi, lui l’amore perdonato ed il pentimento privo d’affetto, lui l’ieri protratto fin’oggi, lui immagine in un cappotto troppo stretto per contenere tutte queste frasi che si dipanavano nel respiro affannoso e critico, in nubi di cristallo da frantumare, in estasi prolungate fino al prossimo battito d’ali di colibrì, il cuore veleno, i secondi che lenti aggiungevano misura e contropartita a minuti soppesati fino all’orlo della bottiglia di cera e zucchero a velo condensato.

Un sorso d’aria e la lama tornò a luccicare perenne nell’incavo convesso, confessava, pronta all’uso pirotecnico, alla magistrale conclusione, all’iperbolica destinazione di ogni esistenza appesa al filo dell’innocenza, al velluto di carezze nutrite e non accolte, accorate richieste, accurati disegni di aiuto e caramelle al limone, accalorate vedute d’insieme dalla piccola finestra a sbarre che dal bagno proiettava l’ombra svedese e bianca d’edifici fuori portata, di madri troppo dissimili, di casa e fuochi e tappeti e divani e tavoli e quadri e padri e studi e suppellettili a mosaico troppo dilazionati tra la concretezza e la falsa tranquillità domestica.

Prese anche in considerazione il fatto che avrebbe potuto sbagliarsi, che le tesi e le antitesi non avrebbero potuto aver luogo perché prive di sostanza e di carene che lisciassero la rena in fondo ai ricordi, che le circostanze erano la causa e l’effetto, la protesi del futuro e l’estensione del passato in un flash back tempestato di monete abbandonate e valute scadute nella fontana dei loro incontri.

Non trovò giustificazioni, solo punizioni.

Non ammetteva errori, quelli commessi, quelli che altri avevano commesso, quelli potenziali, quelli soltanto pensati, quelli sperati, quelli provvidenziali, quelli per il troppo amore, quelli stanchi di gelosie e avidità, quelli paffuti e grassamente debosciati, quelli analitici e selettivi, quelli anarchici e chirurgici come un bacio sotto la luna.

Anche l’altra aveva avuto le sue colpe, le sue manie, i suoi perché che l’avevano indotto, costretto, forzatamente spinto, recluso in scelte non progettate, ipotesi protettive preventive, decisioni inferte, calcolate e fredde nel mondo che sprofondava nel calore dell’inferno fermo a propositi e miracoli trasandati.

Che colore aveva il sorriso?

Non ricordava: tra il giallo a tinte forti e l’arancione salato, tra il cobalto tumore e il verde vomito, tra il bianco cadavere e l’avorio obitorio?

Non ricordava, e questo gli bastava.

Era stato facile amarla dal principio, era facile adesso ricordarla, era facile, troppo: ormai l’aveva dimenticata.

Stava godendo nel sapersi di lì a poco finalmente libero e libellula finalmente pronta a salpare finalmente piena di vita da poter anche finalmente morire.

Glielo diceva sempre anche lei, l’altra, quella che.

In fogli di quaderno a quadretti gli scriveva le sue giornate ed i racconti si facevano claudicanti, a tentoni trovavano la fine, a tastoni gorgogliavano l’inchiostro di sugo e riflessioni, erano spade e gemiti, trivelle erranti e trapani multiuso, tridenti marini in scogli di molluschi invertebrati, i suoi sogni.

Lei grigia.

Graffiava un altro giorno facendosi spazio tra giornate uguali a righe disuguali e colori demodé, e sembrò che si incontrarono, gli occhi, le mani, le vene, le arterie, i pensieri, i profili.

Sembrò soltanto, fino alla fine, fenicottero in gabbia che decide di lasciare lo stagno per il lago ghiacciato, il tiepido termine.

Se avesse saputo avrebbe guardato monotona nella sua direzione?

Lei lo chiamava anima, lui aveva creduto di averla.

Lui la sentiva sua, lei lo era.

Lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato.

La domenica suonavano le campane.

Puzzava di preghiere fatue la stanza del giaciglio con foto alle pareti e cornici tarlate, ossequi e conciliaboli, sciami e frenesie, lingue e salmi, salvaci e benedici, amen e riposa in pace, la messa non era mai finita.

Comunque.

In seminario aveva espiato e seminato davvero poco per raccoglierne i frutti, le delusioni altrui, le confessioni inventate, i vinti ed i colpevoli, i perplessi e gli assonnati, la gioia del peccato, quella si che avrebbe voluto urlarla alle quattro anziane in coda per l’ostia che non le avrebbe salvate di certo.

Nessuno sarebbe uscito vivo da qui.

Come crema densa sulla schiena giovane d’adultero rideva scivolando negli anfratti del ricordo, le perversioni affilate, i desideri affiatati, le pecorelle assuefatte, l’ovile pieno di doni e giochi e parole di conforto, abbracci e virtù perdute, occhi non politicamente corretti traditi da occhiaie color caffè, integerrima perdizione, soave soddisfazione.

Riusciva a liberare l’animo dei poveri credenti dalle loro ancestrali convinzioni dissacrandoli, sconfessando le fedi più agguerrite, brandendo carezze e porte chiuse a chiave dall’interno.

Cercava la pace.

Quella degli altri, quella di chi lo cercava con insistenza per raccontare e descrivere e partecipare e solidarizzare e confluire e dimezzare il proprio fango dividendolo con lui, sporcando quella veste nera con l’unto di mani trascinanti e dita contrite.

I suoi peccati già bastavano per dargli sicurezza e ampia libertà d’azione, i suoi dinieghi, la sua crudele bontà già lo immolavano ad unico solare salvatore di se stesso.

Ma aveva bisogno degli altri.

Li ricercava, li inseguiva, li trangugiava, li sventrava, li prendeva, li ammantava, li copriva caldi, li fagocitava, li lisciava, li proteggeva, li liberava dalla vita.

Esistenza morta.

Non negava il prima ed il dopo, non riconosceva solamente il durante, non lo accettava, non lo aveva mai fatto, non voleva ridursi adesso per incuria o compassione di sé, quarantenne eroso, a comprenderlo, ammirarlo, cimentarsi in prove non proprie per pura pazienza, per paventata pudicizia e putrido dolore.

Affrettò il passo come se qualcosa fosse andato storto già prima di cominciare la festa.

Temeva quel momento atteso da così lunghi anni, ragnatele di vergogna e millimetrici fili di attesa.

Freddo; era freddo il muro incrostato di urina di quel sottopassaggio del centro, o era più fredda e lucida la mala lama che flirtava che il pollice all’interno della tasca sinistra, tagliandolo, sfilacciandolo come ciondolo di perline e soffi di brina settembrina.

Sfrigolava la falange ma il piacere era troppo per potersi fermare, un attimo, un istante.

Due mani sbatterono insieme come a dirgli:”E’ la cosa giusta” così almeno volle capire domando l’istinto che domandava di zittirlo nel traffico impazzito delle sei.

Sei, le diciotto pomeridiane: non bisognerebbe mai intraprendere niente a quell’ora così tarda, amorevole coperta del giorno.

I tempi sono fondamentali per il raggiungimento della fine.

La cadenza del vomito nel cesso, a fiotti la diarrea, liquido lo sperma congelato represso.

Ma lui camminava spinto da quella liposuzione della sua vita che andava a compiere, pregando come non era solito fare, lui il prete, lui le mani a grappolo, conchiglie e perle.

Non aveva liberato molti, solo alcune, le più significative, annientarle voleva dire allontanarle da sé, dalla sua pericolosità, ucciderti per non farti più male, era un avvertimento, un segnale, un manifesto da firmare, siglare senza iniziali puntate, tutto maiuscolo, il contrario di come avevano vissuto: la vecchia insegnante, l’amante, le sorelle, anni prima la nonna materna.

Aveva bevuto un bicchiere di latte prima di uscire, perché il latte lo faceva sentir gonfio e materno; si era rasato dai lobi alla giugulare, dal mento al pomo, perché rasato avrebbe sentito bruciare più forte la pelle investita dall’amore, dolore, terrore; si era vestito con l’uniforme nera ed aveva sistemato lo spicchio bianco, residuo di purezza, proprio sotto il collo, pronto a sporcarsi di tenebra.

I portoni in legno e le sbarre alle finestre si susseguivano senza sosta, carceri senza posa, rendendo ugualmente irregolare la città, sconosciuta e familiare ora nello stesso istante di passi e pensieri aggrovigliati; ancora macchine e colori, campanelli e cognomi, citofoni e lampioni, marciapiedi ed escrementi, sporco e rigore dei caseggiati fragili fantasmi decennali.

Non sarebbe mai arrivato, non sarebbe mai voluto arrivare, era già lì da molto tempo.

Suonò.

Qualcuno aprì.

Lei.

Il respiro divenne trappola sui gradini di marmo interni del condominio spoglio.

Spoglio come trovò la madre, denudata nella vecchiaia, nell’atrocità malata, volendolo ancora suo, una volta ancora, l’ultima, lei lo sapeva.

Era sensuale e timida, settantenne e bambina, fiore decrepito e profumo di mosto, spighe di grano e falce, era tragedia e trapasso, muscolo e carne, pelle, reliquia e sfinimento.

Si fece prendere, non fuggì, il letto lì vicino li accolse, voluminosi ciarpami di ciò che rimaneva alla luce fastidiosa di una abatjour datata.

Il coito lo colpì come il pugnale che aveva conficcato nella schiena, l’amplesso finalmente lo liberò dall’ossessione.

L’infarto portò la madre con lui.

Nuovamente non più libero.

 

 

CENCI CENCIOSI

 

 

Un tavolo di noce bruna spesso a dividere, il sole, la luna, fuori un buio rotondo come bocce sulla sabbia arrossata e stanca di essere calpestata.

In sottofondo andava, talmente impercettibile da risuonare cupa e ridondante “Compagni di scuola” di Antonello Venditti, compagni di niente, avrebbe aggiunto alla strofa successiva, quello che noi non siamo mai stati.

Il Carnevale era alle porte ma io di maschere, mascherate, finte burle, scherzi della vita e della natura ne avevo già abbastanza, avevo ormai già veduto un bel campionario alle mille cene di famiglia che puntualmente dovevano essere fatte, celebrate, ritualizzate, conclamate.

Farina, uno starnuto dolce, lieve per non disturbare, la mano che passa sull’altra in un gesto unico, costante e consapevole, deciso e lineare come a tracciare il cammino.

Il tavolo ancora troppo largo ci divideva, due barricate, due fuochi divisi da un mare di silenzi ed in mezzo noi naufraghi remoti di sentimenti l’uno per l’altro, incapaci di darci se non dispiaceri l’uno l’altro.

Il vulcano di farina immobile al centro attendeva la lava sconfitta del tuorlo acceso farsi densa come complesso amplesso, in un vortice di mestoli d’acero e maestria incontaminata, voglia incorrotta, sapienza, fame d’amore.

Mio padre era così: quello che faceva lo voleva al 100%, perfezionista maniacale egocentrico, senza che questi tre termini insieme, uno dopo l’altro, indicassero forme negative patologiche o invidie covate e gelosie ritrose.

Ho sempre di lui stimato lo stimabile.

Era così, ed io non lo accettavo, forse perché così diversi, ciambelle mutilate dello stesso impasto, forse perché qualcuno, io, a lui troppo uguale, avevo dovuto divenire altro per poter continuare quel sottile gioco di silenzi assensi negli anni imperturbabili adolescenziali, perdendomi in competizione impari.

Era armonioso mentre miscelava dolce, come forse avrei voluto che mille volte avesse fatto con i miei capelli nero rancido lunghi sul collo come a lui non piacevano, il pizzico di sale gettato con sufficienza, lo zucchero tenue e solare come mai lo furono gli abbracci, la leggiadra e soffice sofferta impalpabile indecisa vigliacca vile farina, la scorsa di limone acre come certe giornate guardando al di là della doppia finestra appannata dalla nebbia, dalla rabbia, dall’umidità, dal freddo, dal vento, dal pianto.

Alla preparazione dei famosi cenci pochi erano ammessi, o almeno così a me piaceva pensare, pochi eletti, l’autore, l’artefice, il deus ex machina ed io, cencio cencioso, accartocciato tra le scapole e le spalle minute, minuto dopo minuzia, dall’altra parte ad osservare, cercare d’interloquire, chiedere, sapere, imparare.

Non ho mai imparato a preparare i cenci.

Forse questo è un segno, o almeno un segnale.

Non mi ci sono neanche mai provato, per nostalgia fecondatrice, per il flebile ricordo ingombrante invadente che avrebbero prodotto tra il mio palato e l’emisfero cranico della memoria, per la voglia ancora che fosse lui meticolosamente, pazientemente, alacremente, incessantemente, dediziosamente, deliziosamente come mai lo era in nessuna altra mansione, ad organizzare il tutto come una battaglia, come un campo di grano giallo, come la vita ordinata, senza sgarri né sussulti.

La pasta fine, passata con il matterello fino allo sfinimento delle vene dei polsi, veniva stesa come belle donne a ferragosto per una tintura ideale e corposa al tempo stesso; il profumo della pasta fresca, ancora acerba mi mandava in fibrillazione, ebollizione.

Mi ci rispecchiavo in quella distesa di paglia giovane, ancora in divenire, che doveva lievitare, troppo sottile, senza spessore, senza personalità, senza cuore, piatta ed inconsistente.

Qualcuno me l’aveva fatto credere.

Ad una ad una come in un supplizio, scegliendo la prossima vittima, sadiche mani coglievano dal tavolo casualmente una striscia qua ed una là, dando la speranza alle altre di poter essere salvate, risparmiate, in un Auschwitz in miniatura.

Colte di sorpresa e fritte alla schiena, gonfiavano come i rospi in pentola gettati ancora vivi, perché la carne si mantenesse morbida e lucente di paura.

I vassoi di porcellana bianca si riempivano senza sosta, l’odore insostenibile mi trafiggeva, mi esortava caldo e calorico, la stanza brillava ora della luce del nuovo parto annuale, dell’alchimia di due uova ed un po’ di farina, di quello che qualche essenza poteva e continuava a fare, unire il già diviso, riconciliare, partecipi della magia della creazione culinaria, parti così lontane, abissi imperscrutabili.

A chi mi avesse chiesto chi era mio padre, avrei risposto: “L’uomo dei cenci”, io e quelli fritti.

Il perdono avveniva gustando le croccanti prelibatezze ad occhi socchiusi, per tornare soldati di due schieramenti opposti, nemici, ribelli, fino al prossimo anno.

 

LA TALPA

 

Se vi fosse stato un respiro lui lo avrebbe colto, se le foglie sopra il suo capo avessero lievemente ondulato scalciando la Luna oltre Orione lui lo avrebbe carpito, se i gufi fossero divenuti usignoli forse anche il ruscello avrebbe smesso di gorgogliare.

Ma quella sera era uguale a tante altre, viste e vissute, raccontate e sussurrate negli angoli di case buie e calde di altre città simili a quella, con le case in tutto e per tutto identiche  a quelle che vedeva fuori dalla sua stanza, dalla finestra al terzo piano del suo piccolo studio divenuto bunker assottigliato di idee e carte colte, libri e disegni, schizzi senza ordine né nesso logico, album a chiazze di pomodoro, lettere ingiallite senza mittente.

Alla finestra.

Osservava giù.

No, non lì, più giù.

Si immaginava talpa pelosa dal naso umido adunco e cieca di solitudine e curiosità, si credeva, socchiudendo leggero gli occhi piccoli e teneri, formica dalla lunghe zampette per scavare nei sogni di altri bambini, si vedeva libero dentro a quei cunicoli costretti di terra umida e mille bivi da prendere, scelte, destinazioni a volte senza ritorno, dove sbagliare via era perdersi, per sempre.

Avrebbe voluto essere mosca, ape, libellula, sciame esplosivo, massa, numero di elementi, neuroni e fotoni miscelati, l’unione che fa la forza, ma etereo, discreto, quasi nascosto, buio, notturno.

Lo rassicurava il pensiero di sé come altro, diverso dal solito, lo incuriosiva il credere che anche gli altri bambini sognassero di essere piccoli insetti per entrare nei sogni dei loro coetanei, per capire, per capirsi, per essere più amico degli amici, per essere amico anche dei “nemici”.

Era piccolo ma c’era tutto.

Il sogno, l’insetto, lui ancora bambino, con una vita di sogni alle spalle, con una miriade di falsi desideri ancora da bramare, con la delusione dietro l’angolo e l’invidia come corvo nero sulle spalle.

Ma non voleva cadere in trappola, nella stessa rete che aveva avvolto tanti, troppi, diretti su un binario morto senza fondo né luce alcuna.

Lui era, e ciò, almeno per ora, gli bastava, quasi lo compiaceva.

I suoi nove anni li portava bene.

Era tutto ciò che aveva in quel limbo di Purgatorio catatonico distacco che si era creato.

Lo chiamavano “dislessico”, ma lui dava soltanto nomi strani alle cose; gli dicevano dietro “anormale” ma lui si sentiva soltanto uno tra i tanti diversi, lo schernivano con frasi senza senso che faceva finta di capire, lo indicavano come a dire “Eccolo!”

E lui c’era.

Dopotutto era sereno, come il cielo celeste tra le nuvole bianche panna, cariche di lacrime di contentezza.

A chi negli anni futuri gli avesse chiesto della sua infanzia diceva solo: “Volevo essere una talpa per entrare nei sogni degli altri”.

Poi chiuse la porta, l’ultimo cliente del venerdì uscì, e ritornò verso le sue carte.

Si sedette sulla poltrona con le ruote che tanto gli piaceva quando non l’aveva.

Il cigolio della pelle per un attimo lo ridestò.

Poi prese un suo biglietto da visita e, aggiustandosi gli occhiali senza montatura, lesse nero su bianco: “Dottor Luigi Fortezza, Psicologo”.

Vi aggiunse: “Volevo essere una talpa per entrare nei Vostri sogni; ci sono riuscito”.

 

 

 

Testi di Simonetta Della Scala

 

Le migrazioni degli Aironi

 

ARANCIO SBUCCIATO

 

Neve ebra,

sii marmo di sangue

Cerco il tuo Sebastiano.

La farina colma

scolla il tuo ribes

e la tua regina on nuit

spira carnefice e morbida

sulle tachicardie.

Sii la cera che batte

su ogni pelle di fuoco.

                                             SDS.

 

 

Anni convulsi o tempestivamente immobili, frigidi.

Dubbi, scelte non pensate, a cui ci si aggrappa con artigli mai esistiti, solo per salvarsi la vita e provare che si può, ancora, qui.

Chi è rimasto dopo la deflagrazione, chi vuole gli scampoli del dolore o chi invece ambisce solo al sorriso, alla fatica di spremerselo tutto liquido addosso, sul corpo che solo io sento.

Vento. Le migrazioni degli aironi.                                                                                                                                                                                                         Non so se tali uccelli si spostino davvero, nel loro cosmo, nell’apnea di sorrisi che non possono concedersi.

Ho scorto di nuovo le fibre di carni compresse, mesi in un letto, cercando di lasciarsi andare senza riuscirci, perché una nota frêle, coriandoli sul derma ancora a dire: non è il sentiero.

Ho visto il respiro dei mattini che altri vivevano ma non io, luce refusa, attese.

Una sera pensai al suolo, la vicinanza di esso granitica, fresco intorno, luna.

I puledri bruni fuggono via nelle mie immagini e si mischiano in un surrealismo di vetro agli aironi mai visti.

Ho creduto di poter cambiare con un getto di realtà la mia stasi, ho stimato, confuso, senza dirimere niente, ho girato nella hall a velocità di serpente per uscirne. Ma non ce l’ho fatta, e sono nel mantice ad attendere le vostre cornee su questi scritti come mia prima ed unica volontà.

Arizona, sabbie sulla crema onirica, continuo vortice di lemmi.

Non si può tracciare un fil rouge dentro i neuroni. Io multiplo, muta sui piumaggi della realtà, più di un’ombra insieme agli aironi che si cela profonda dietro quello sguardo che non è mai per nessuno.

E una iuta di gelo a sorvegliare la resistenza. Nessuno ha mai tranciato le bucce aride di questo rifugio. Ma sia faro Porpore, fra le convulsioni. Mi scuso intimamente per il tempo di attesa, per il secco, madido tempo di attesa a cui ho sottoposto i lettori nell’uscita di questo quarto numero.

Fiducia on mask, chi inverte il nitore dei fiati credendo in una natura, in una vertigine, chi sosta fra i gonfiori del pianto, chi sa di quel pianto...

Hibou.

Mira in sperti

a vina,

a libiti

in cosso.

Ritmici

modem

parsec.

 

E perché esistere, poi, non è forse la maschera di quel pianto?

 

berti

Subito, après coup,

lasciarti indistinta,

lasciare, carni usteron

malvagi.

Berti di cera,

estate, 

quando

non sai che ti guardo.

E suggere

di là,

chi cerchi una sera.

 

La primavera cuoce acre la progettualità sbattendo caos sui minuti e sugli atomi di percezione.

C’è stato un toulle sul mio viso, cardini a battente nelle ruggini della psiche.

E questo strano quotidiano sempre a collante, muschio fra le dita.

Non sarò un pregiato airone, o un cavallo bruno che fugge, non sarò una collana d’acqua cristallina o una luce screziata.

Quando si è immersi il derma, il cuore, nelle sabbie mobili della contingenza, i compagni di viaggio mutano di segno e non possono altro che stringere saldo dalle pervicaci fibre nervose che restano loro, spasmi di creature perdute.

Dove non esiste la finzione perché si ha terrore del nulla vicino, partners d’ospedale, o di sentore, presagio, percezione, male di vivere, esistenze che mostrano le loro ferite nella nudità del fuoco.

Non mi interessano i Vincenti non è con loro che si snoderà il mio arcolaio.

L’acqua placherebbe, forse, questo udito vorticoso.

Mi infastidisce la densa e arsa fragilità della sabbia: è il vortice che resta esanime per un attimo fino all’incandescenza senza renderti altro che il suo niente.

Molte deflagrazioni si preparano o si sono svolte in noi, ogni aculeo privato che si spande, non è che un fatto sociale.

Io sono qui, e bramo che voi mi ascoltiate, bramo che voi ci siate.

Ho impersonato tanti Sé per un piacere non mio, e ancora macchie di terra rossa sull’assenza di pelle che si dirama e urla di essere riconosciuta.

Non c’è Fortini con il suo canto degli allori, non possono esserci i ranch di Sereni colmi di polvere izzata dal vento.

O forse sono le loro carezze che dissipano seni morbidi sull’esistere.

Mnemosune fratta in lacerti e simbiosi.

E sadici passaggi di impossibile condizionamento.

Io cerco il tuo senso, il mio senso, ma non lo conosco.

Frangi su di me il dolore che sento.

 

Cerili oltre la soglia,

viva di sonno scoperto

agili seni. cercare

a sera che tu sia e

che tu sia di Bacco, lestre;

che tu non ti vòlti,

agili seni,

quegli occhi su me.

 

 

Ho voluto che questo fosse il nostro viaggio tra il fascino imprendibile di coriandoli ipotizzati.

 

Questo brano è parte della mia carne, cera profonda in me...

 

Blu carne, Miscugli, nuit, lacrime on rouge, giochi di rifrazione inconsapevoli.

 

 

Blu carne

Continue

faglie sul dolore.

Mentire, cercarti

di carne, e lo sei

mentire,

quando voglio solo

l’oblio.

 

Ali che non serpeggiano, succhiare i miei sospiri invisibili.

Bisogna non giocare a dadi con chi non sentirà un giorno, quel giorno, se ci sei o vuoi andartene. Bisogna continuare a respirare anche se screma di sangue profondo. Trovi che ci siano direzioni? Sento edera dentro, che pervade, un’alba su carne blu a inondare di senso, amarezza, affanno, rugiade mai viste.

 

Miscugli

Io sposa, il futuro nascosto.

E questo ventre che reclama violento di non essere più solo, di percepire un battito, di ascoltare un battito.

E’ quasi metà agosto, questo arcano tempo che si scompagina fra le menti semi dissolte. E’ come se emettesse su noi umani le rifrazioni liquide sciolte dalla temperatura.

Invece, durante l’anno, quasi un ordine inside, vieta miscugli di sabbie cerebrali.

Sono immune all’alto mercurio che troneggia sulle povere carni di tutta la popolazione.

Ho forse una corazza impenetrabile o un ottundimento di sensi quasi misterico.

Avevo una sorella che gemeva del mio stesso dolore incompiuto e non accettato. Avevo il suo sguardo di cielo e le sue mai soffici.

Ci incontravamo in un giardino ombreggiato e lei parlava con garbo, io mi trasfondevo nella sua morbida magia.

 E lei per me era uno specchio, un anello di stima verso la sua cultura finissima, la sua concreta proprietà di linguaggio, il suo mondo interiore filigranato.

Poi il nulla, lei, io, altri elementi a chiassare la nostra armonia... E ancora separazione, rifiuti, equivoci.

E’ quasi metà agosto, il corpo vorrebbe vivere, con un altro corpo magari, a contatto, la sua metà di agosto.

Non ho sorelle, non ho fiducia, non ho paura, ma conservo su una zattera impenetrabile tutto ciò che ho sentito bruciarmi dentro tra scansioni impietose.

 

So di berti

all’estremo.

En présence

non chiedermi

non chiedermi

di lasciarti.

Il selciato,

a infinito

o vederti

tra gli atomi.

 

Nuit

 

Non esiste la notte. E’ un vibrare di atomi scuri. Serpi di buio, corvino on black.

Si stemperano sagome di umani, talvolta con la volontà di fondersi. Ma questo non è dato. E’ bianco calce il nitore dell’inganno, come un flash, madreperla sui soma nudi. A lungo si cerca la pace, il volteggio dei sensi, che palchi la voragine, che sia. Un giorno il talento delle pupille cessa di sognare e allora siamo kappa elementi, soli; potremmo ingannarci che un messia penetri il vuoto, ma da quell’istante sarà solo una fallace e veloce menzogna.

La notte è questa: la vertigine di non poterci staccare da noi stessi.

Dal vortice di contingenza in cui siamo voracemente, gettati senza volontà.

Esistere è la notte in persona, atomi bui solo nostri, che pulsano sassosi sui sensi in dote.

 

mensa al tuo pasto, madre

indegno il mio grembo

Al tuo solo sguardo.

Rosso ferino

nel nulla che sono.

 

Successivo

Ciarle a bagliori, minacce, sostenere il coraggio oltre confine, forti non-sense  fuori dal coro. Provocazioni a volto chiuso, come se bastasse urlare con chi si crede debole per stornare la voragine. Ma cosa succede se costei non è fragile, ed è al tuo pari , sa difendersi, metterti al muro... sassi dentro, nell’intimo, perché se anche tu non esistevi realmente, nella contesa, hai subito le voci, gli insulti, hai resistito e controbattuto, ma sei lesa adesso, franta da nessuna protezione, graffiata nel nero di questa alba scabra. Forse a suo tempo, volevi donare a lei ciò che tu non hai avuto, volevi stornare il silenzio delle ore d’ospedale, o forse, più vero, tu, sola, avevi bisogno di lei, di sentire che per qualcuno un’azione valeva tanto, anche se non recava fatica.  Avevi necessità del suo sguardo, tu, amavi quelle poche ore come conquista. E ti cullavi nel suo parlare sottile e denso, ti sentivi, ti sentivi. Era la tua unica vita trovare la pelle sofferta di una sorella. Per una volta tu la forte, apparentemente. Tu madre cercata, attesa. Mi bastavano le sue iridi a poco a poco più serene, mi riempivo di esse e poi i suoi lemmi sempre on soir, gonfi di crema, di lenta seduzione verbale. Ci sedevamo all’interno della struttura ove si stendevano ombre e troneggiava un cedro nel mezzo, biglie i minuti. Mi sono avvertita vuota quando non la potevo più lisciare con le mie blande cure. Era mio da allora lo scandaglio nel vuoto. Sono gelosa delle mie amicizie, fortemente. So di sbagliare, so che non si vive di questo, ma la lealtà, che forse pienamente neanche io so dare, è così dolce, vibrante, duttile. Non l’ ho più vista da allora e mi manca. Vortici di incomprensioni, lei che si ritrae, fende questo agosto con dolore, credo, e contatto greve col suo uomo. Vorrei starle accanto empatica d’esperienza. Ma non si dà in reale a questo colloquio. Nessun sonno stanotte.

Sì,la notte, forse, non esiste...

 

 

Labirinto

Le grate o gemme,

abiura di seni.

I panni in scorcio

vestiti di croci.

Ti afferro stanca

sull’ambra di cuoio.

 

 

 

Lacrime on rouge

 

Le tue grandi pupille sgranate dal pianto.

Non potevo abbracciarti, non l’avresti permesso, forse, densa nella tua fierezza. Avrei voluto darti qualcosa per lenire lo spasmo che prima di te avevo sentito indosso. Ma io chi sono per avere questo potere dopo averti ferita. Sono l’Altra: aspra e dolorifica che, come te, immune e inconsapevole, allora, ignorò parte della realtà.

Cancro sulle particelle roventi d’agosto. Impossibile leggerezza. Ho reciso in te le mie piaghe di allora e in uno specchio ho visto le tue.

Cosa, per me invece dopo? Cosa? Suppliche, farneticazioni di altri, delusione asciutta, bruna di sospiri. Avevi i palmi sudati: mi hai dato modo di afferrarli,  e li ho dentro: i tuoi palmi preziosi. Potevi mordermi con impietosità, ma non l’hai fatto.

Sei la sposa d’agosto, diana di boschi solo tuoi. Ridono di me carcerieri senza fine. Ridono di me scampoli arcani e vorticosi.

Non sono dea, vincente, o sibilla.

Ma tu sei l’ora che scandisci.

Potessi Io, sola, scardinare quel pianto...

Vagheggio sabbie rosse che si scompongono al tepore che i nostri passi marcano inside.

La vita che ho di fronte infrange le membra sadiche di questo corpo coriaceo forse, e nemmeno adesso così marmoreo come vorrei.

Non ho silenzio, quiete, riposo.

E devo venire a patti con le parole scabre che ti ho detto, pur vere, pur distanti.

Terra e ancora terra, asfalto; meduse sul selciato, urticanti.

 

E Di sposa

il tempo

di rapaci più fiochi.

Mentire al sesso

che non parli

on damas.

 

Liquido brandire il trascorso, che non basta, che conferma il dolore di spine per quella vicenda esistita in un lui forse, non compreso, ed una fragile lei.

Potrei parlare di libri, ma non qui, potrei inventare vite e pensieri che non mi appartengono, più sfolgoranti, oppure lussuosi concetti che vi ammalino.

Ma non sarei io o una delle molte me che si riconosco nella sola unicità di non mentire: anche se fa male, anche disturba qualcuno.

E’ molto esteso questo mese di reclusione e pianti, di resine gravide su tronchi e persone e non parlo della lei che vorrei soltanto carezzare e mi è vietato dalla sua volontà.

A volte, i cerchi non si chiudono mai. A volte restano spalancati e asperti su chi li ha vissuti. E capita di non sapere come gestire il loro vortice, e capita che non ci sia soluzione.

Ho cercato amicizia dove sapevo che avrei avuto il nulla in cambio, ma non riuscivo ad esimermi dall’essere madre e sorella, nuda parca mancata di un fato personale. Forse a tratti lui mi ha ricambiato con stima ed empatia, ma l’emotività condivisa, una carezza o un abbraccio di cui avevo un disperato, disperato,  bisogno lì non c’è e non c’era se non alle sue imposte condizioni nel suo tempo e nel suo fortino di scaglie.

E poi non i pochi secondi di scuse brulicanti sui miei singhiozzi di allora, non un concerto di galateo per tergere il resto, non scatti di brina, o lemmi d’occasione, imposti per non perdere lei.

Questo, forse, è tutto ciò che hai per me, come una massa di cemento compressa, solo questo. Ma il mio domandare era sul tuo profondo, era di te, me, di quel dolore e non bastavano scuse sbrigative, lo sai, non cercavo una compassata melodia conformistica. Io sono il tuo nulla, la tua vergogna, sono e non dovrei esistere, sono l’arcano di un amore sfrenato che ti ho spalancato in un lampo, sono la scossa che non vorresti più avvertire.

Forse, davvero, ci sono cerchi, nella vita, che non si chiudono mai.

 

Voûter scialbo

alle palpebre

ed ore

che non

cessano mai.

e quell’aspo

dell’alba

ove tagli al concreto.

 

 

Soma indosso, che non accetto, soma addosso che non desidero.

Lei è l’incontro con l’ombra, che attendevo da        anni, ma è anche la me che sono stata e sento forte il voltaggio del suo/mio dolore.

E’ la me che in potenza avrei sempre voluto essere.

E poi di fronte io e Lei ed io più dura in quel frangente per non sembrarle ipocrita, perché mantenesse, anche a mie spese, la sua dignità e il suo coraggio. E l’ ha fatto. E sono io l’ombra adesso, esile e sottile.

Chiamare, cosa perdonare, come essere irrimediabilmente soli, scomodi, ovunque?

Stornare il vuoto........... Mi viene in mente solo il cupio dissolvi.

Dovrei essere forte e non so se lo sono, forse sì, sì; forse.

Non dimenticherò quelle lacrime che lei non doveva subire, non per me.

Non ho giustificazioni, volevo quadrare il cerchio volevo che lui stemperasse il disinteresse su me viva o morta, volevo percepire che se anche non avremmo  avuto un futuro insieme, lui ci teneva a quel poco di mia vita! Ma in un anno non una parola, non un sorriso, non avvolgimento su ciò che era stato, sul perché.

Per me questo era troppo secco, mi bastava un cenno, e poi, una spiegazione dal suo cuore che mi urlasse simonetta non sei stata solo un corpo, anch’io ti ho dentro anche se le nostre vite saranno discinte.... non vali così poco per cui io non mi sono curato se avresti vissuto ancora oppure no.. e poi, dopo, almeno una carezza sulla mia interiorità evidentemente lacerata, una luna su me che cercavo di essere come ti avevo promesso.

 

Tu seno in cerchio,

le baccanti on charmant.

Balzi radi sul limen.

Felidi il cancro dell’agosto

micida; meduse

in gara per la calce su te.

 

 

Giochi di rifrazione inconsapevoli

 

La sua ansia tramata da fili di specchio.

E forse, non c’era un perché se ci eravamo amati mentre sentivamo di sfuggirci, di fuggire: silenzio dei nostri sospiri.

Giocavano in rifrazione le bende di successivi amanti, infilati come perline di nessun pregio, di nessuno; in parossistiche sequenze.

Rubini strappati ad un’estate, le catene, acciaio di preziose illusioni, e tu il tu che in una sera, rendevo nullificato nella memoria cercando il seme di una gravidanza curata dal buio...

Solo poche frante fascine di giorni, e io totalmente aperta come da un bisturi sulle tue mani: quelle di allora, quelle che non si staccarono mai, nonostante il tuo imperativo, dal mio corpo ubbidiente.

Biglie sulle reni, forse, sandali in un sogno sincopato dentro la scatola cranica, versano di te bottiglie recise sui fiori affastellati a primavera.

Vorresti di me un’altra mill’altre donne in suadenti... secche, giornate a stemperare il dolore che dissacri dentro, quello che esorcizziamo in acustica di aria mossa a scarto continuo.

Non mi importa definirti, i fili di specchio hanno confuso sai, quelle storie di cui ero certa Diana, uno di quei banditori di cui temevi la forza è adesso ridicolo, scampolo d’ombre rifratte, disorganico lemma, corto filo sul quale avevo avvolto fantasie convincenti solo per quella me solitaria che incontrasti convulsa.

 

 

Debiti moon like you

forte di schiena,  non ancora;

sembrati colei, e amarti

dal bruno nelle

bacche di buio.

 

Poi una sera, il corpo stanco, privo di speranze, incontri il profumo dell’anima di un altro, mai tua, ma vicina, terribilmente vicina. Quanto di sogno, di dolore, di bellezza dannata vogliamo ancora imprimerci, generazione incorrotta ma spaventata, chiusa su sé per stringere le pupille in una morsa che non senta la coscienza. Sfrontati contatti stampati su emotività mobili, sassose, granulari eppure morbide, lacerate, sul raso del vuoto che chiudono fitto a sé.

Sei la me che non conosco, il demone che serpeggia dentro le fibre, l’inferno di ciò che non sarò mai.

La luce che si incarna, dirime scheletri fra i sensori, luce come densità di palpi  senza respiro.

Ma siamo i sopravvissuti al nostro ledere continuo corde al reale, siamo ancora avviluppati alle sirene, siamo reduci dell’autodistruzione violenta, del dolore frigido sull’energia di qualsiasi simulata normalità.

 

Torsione

Ensemble o spene

in misure da vischio.

à nouveau certi

che sciogliessi

quel nome.

 

E potrei fingere ad esempio, di non sentire questo vortice nero: dentro. Che la mia vita abbia senso. Che non esistano ricordi coriacei di dolore.

Potrei immaginare che quella sera, o una semplice, qualunque sera, sia stata concepita la mia bambina e che io sia giovane, felice.

Che io sia.

 

Muovono

da scozzo alle falangi

di cranio, premerti

indosso oltre le calci

on cheveux.

 

Potrei voler sentire fino al volume del pianto una canzone inintellegibile  ma dal suono così dolce... Forse perché allora quando aspettavo in macchina quell’uomo, la radio suonava sì, le sue note. Ma la bambina non ci fu. La bambina sono ancora io. Ed io urlo la vergogna che ho di me.

Il denso cerone sul viso cancella via dallo specchio di mosaico tutti i fallimenti. Sono la strega di me stessa. Che strano... forse qualche cellula è d’acciaio: ma rugginoso, senza memoria... Un attimo solo, oblio irriconoscibile.

 

Melica al denso,
frugavi di charme.
au beson carne
sui cedri di vento.
strategia rubino
senza più legazione.

 

Sorrido, per quando riesco ad essere sfrontata, e allora ho pace, nomino l’essente con la voluttà e la violenza che sento in esso e rendo paga la me di serpe e bisbiglio inferocito che cuccia dentro il brulicante mosaico. Sento che se solo lei, sirena di qualcuno, avesse rendez-vous, concerto di sé senza domande, forse, per attimi sarei paga almeno, dello spettro che più ricerco, ricusato nella forza, nell’impietosità. Scampoli di trame in rifrazionie da fili di specchio che ancora mi manovrano.

Gli uccelli, dissi, non possono ridere, a me invece è vietato il pianto perché per una sorte zingara e inappellabile esso mi reca, biologiche e materiali,  fitte lancinanti alla testa. Rifrazioni fra me e la negazione del riso, del pianto, specchi o jeu de clés.