scarica il testo
  Clicca qui per stampare o seleziona File-Stampa dal browser

Contaminazioni Creative

Sensi Charme

 

(Per le foto dello spettacolo consultare la apposita sezione nella barra di sinistra  sulla home“Foto Mostra Sensi Charme”)

 

DATE E LUOGHI: 24 gennaio e 8 febbraio 2004, ore 21 Ex Chiesa S.Carlo dei Barnabiti via S. Agostino, 23 Firenze.

   -30 gennaio 2004, ore 22 Caffè Storico Letterario Giubbe Rosse, p.za della Repubblica, 13 Firenze.

-         3 febbraio 2004, ore 21.30 Officina Giovani  piazza Macelli, 4 Prato.

-         5 febbraio ore 21, BZF via Panicale, 61r Firenze.

 

 

Presentazione

Notte. Corpi, sensi policromi.

Correte senza tempo nel viaggio, nel sapore, nel gusto di questa performance.

Generate insieme a noi il senso charme di una serata priva di redini o distanze.

Vi cospargeremo di flash i più difformi, polverizzando materie e sciogliendo in vertebre e midollo ogni interprete-collage.

Entrate in noi. Frangete i ricordi in maschere lontane.

Porpore.com vi porge ancora se stessa pur nell’esistenza dannata ed implacabile di chi resiste, sospesa nella liberazione integrale, anche se solo per un magico nugolo di istanti.

 

E se io, dove...

she: just the same,

la danza corvina

al ventre di Crono.

Sesta mitrale,

in cuoio to sham

fra le iridi in seno.

Battono corde a nessuno...

E di lui in gesso,

specchiarsi dov’è.

 

Percepitevi un’unica forma duttile nel corpo e nell’anima degli interpreti.

Lasciate che ogni vostra fibra si distenda, lasciate che questa sia solo, semplicemente, la Vostra notte.                                      SDS.

                                                                                  

Regia: Simonetta Della Scala in collaborazione con Gabriele Arata

 

Attori:   Niccolò Arcangeli, Simonetta Della Scala, Alessio Nieddu

 

Improvvisazione pittorica: Giacomo Napoli e Lo Steve

 

Chitarrista: Simone Drago

 

Testi:  Luca Ariano, Lorenzo Carpentiero,  Tommaso Chimenti, Mauro Daltin, Gianluca D’Andrea, Simonetta Della Scala, Francesco Massinelli, Marco Simonelli.


 

Testo di Luca Ariano

 

 

 

Matrimonio

 

Cristalli di pioggia

s’infrangono

s’una fanghiglia di foglie

tra le nenie della notte:

una ragazza vomita il suo vino

per accantonare giorni

nel tedio di mensole,

lontani da quel sogno policromo.

Un’iridina crogiola

in un alloro senza poesia:

stagioni prosaiche

culminate in un velo

odoroso d’immacolati fiori.

Non trovare il tempo

di scrivere nuove pagine

opalescenti,

prigioniero di vane vetrine

che si frantumano in un alito

di cielo tra campi arsi e sirene.


Testo di Lorenzo Carpentiero

 

 

ATMO-SFERE CANGIANTI

Non rimango più qui. I miei piedi ormai fuori da solchi vibrati negli anni. Tra due virgole di dedizione.

Rimasto a guardare quel punto, da tempo non ritrovo lo schema. Ora non più. E' come se rotte e coordinate si fossero sciolte nel mare. Netti filamenti geometrici ormai volte in masse ondulate.

Quel punto si è perso in acque voraci mescolate da avide mani che sfuggono all' alba. Ed ora le onde mi posson raggiunger con la gioia di chi ne ha il timone. (sussurrato: Egli le guarda e ascolta il fragore l' urlo che apre le porte che alza le prore).

(pausa)

Conobbi anch' io una forza gitana che agita il suono rendendolo vacuo

non sbaglio dicendo che vano sarebbe cacciarla brandendo lance e coltelli.

Folle colui che scavasse bramando i servigi di tale finzione

(Nota dell’autore: parte "karma police" dei radiohead)

Lo sento!

(guarda in alto) Il vento è venuto!A prendermi!

Mi avvolge e bisbiglia mi avvolge e bisbiglia

Ecco lo vedo!

Il punto, il punto, la leva, il futuro!E' la'!

Il vento mi sposta, mi gira, mi spinge a cercare!

Mi muove e confonde vibrando dolce alle orecchie

caldi capogiri e tempeste di sabbia!

Non vedo?Ci sono?

(guarda in alto) Mi avvolge e bisbiglia mi avvolge e bisbiglia

Mi avvolge e bisbiglia... ad ibitum

 

( Note dell’autore....Io lo farei con la musica anche all' inizio: a voi la scelta! Potete anche se volete introdurre un personaggio che sfotta il soliloquio dell' altro o comunque, secondo lo stile, interpretarla con ton opposto al contenuto per creare contrasto il titolo lo ometterei nella performance)

continua...

 

A (lo stesso di prima) incrocia camminando B

A Spera ancora di saltare quel muro?

B (fa per andare via guardandolo con sufficienza)

A Scusi dico a lei!

B (ancora più infastidito)

A Guardi che non scappa eh! Io le parlo...sapesse!

B (fissandolo severo) Arrivederci

A: No, no lei non ha capito. Sa dove finiscono quelli come lei?

Mi crede un pazzo eh? Allora lo dica! Su! Un cretino, un idiota, questo mi considera! Io sono l' esempio del personaggio che poco fa descriveva ai suoi commensali come parassita, sbandato, reietto! In quel salotto soffocato dalla moquette lei intratteneva con voce calda ed amabile signore istruite e fascinose ubriache di pelli e profumi! Mentre dal giradischi filtrava un bel Mussorgskij

A Parlava di opportunità condendole con un savior o un savoir faire, che ci stanno bene! Istupidiva gli astanti beandosi del monologo vomitato dalle sue mascelle cadenti! Ebbene sappia che tutto ciò è finito! Scappi! Scappi! Se non vuole essere bandito!

B (d' ora in poi ascolta sempre più toccato dal discorso del suo interlocutore) Lei crede?

A (incalzante) Non sono io a crederlo, lo vedo nelle linee!

B Che linee?

A Le linee che si formano sul vetro quando piove!

Vi si vedono cose che lei non concepirebbe nemmeno! Più sono dritte più impietosa sarà la vostra sorte! Più vi è ordine sui vetri più netta sarà la punizione!

B Ma che dite?

A Dico, dico! Milioni di gocce alimentano l' opera che presto sarà completa!

B Quindi lei si sente il giustiziere supremo?

A No, io sono come lei! Le sto solo raccontando le cose! Ma il riscio è di tutti!

B (leggermente inquietato) E, sentiamo, se io riesco a sottrarmi e a difendermi?

A (quasi rassegnato) Purtroppo loro possono cessare ma poi una nuvola ne cala altre e le parallele si moltiplicano finché la superficie si colma. (pausa)

Oppure potremmo cercare di ...

B Lo dica!

A No, forse non è il momento...

B Si che lo è, forza!

A Ci vorrebbe una mano soffice come la seta che non tema la lama e sappia correre veloce, veloce...

B Quindi lei cerca delle braccia...qualcuno che inventi una soluzione insomma!

A No!

B Allora cosa? Delle armi, dei soldati che sparino all' impazzata e inneschino bombe fino a bruciare ogni goccia!

A Ma no! Così facendo si romperebbe il vetro!

B Io non la capisco proprio...

A L' unico modo sarebbe (pausa) aprire la finestra, scivolare dall' altra parte affrontando la pioggia! Solo così si può sfuggire alle gocce impedendogli di dilaniare i nostri corpi!

Come le dicevo bisogna arrivare al muro in fondo al cortile e scavalcarlo! Questa è la sfida!

B (pausa; poi, fuori di sé, picchiandolo) Impostore! Balordo! E io che ti ho ascoltato, ho avuto fiducia! Bisogna diffidare! Vattene dalla mia strada! Fuori!  (Nota dell’Autore mentre continua a picchiarlo entrano altri personaggi che li dividono mentre parte la musica che copre la voce di B che continua a urlare più o meno le stesse cose)

 (Nota dell’autore sull’esecuzione potenziale... Anche qui la musica potete sceglierla voi salvo alla fine mentre avviene il pestaggio che metterei per contrasto un bel J Lennon dall' album Imagine: O la stessa Imagine ma forse è banale o Oh Yoko o Jealus guy...)


Testi di Tommaso Chimenti

 

ACIDO A ZOLLE

 

La terra che brulicava l’aria depressa quando correvo anni fa tra questi filari, è ancora, viva, irruenta, ti prende con la forza del piacere, un groppo di grappolo che stringe nodi d’infanzia, di vendemmie, di colline salutari, da dover mestamente poi salutare alla fine dell’estate che sapeva sempre troppo di fieno e starnuti, di stalle e buoi sudati, di caldo e di bicchieri di rosso tra le bocche scompigliate di paesani rugosi, silenti, sorridenti.

Camminando a ritroso vedo zolle ed acini, le ferite nella terra e quelle dei passerotti che beccavano l’uva ancora acerba; a me piaceva sentirmi canarino o beccaccia e cogliere proprio quelli già rosi, corrosi dall’amore per la vita, la sopravvivenza al domani, al sole che maturava noi ragazzi dentro e l’uva fuori, bella, rigogliosa, piena.

Erano giorni che correvano sul filo dei rivi freschi, acque che sarebbero andate ad abbeverare le vigne lì vicino, il lavoro di braccia burbere, di cuori ispessiti dalla fatica costante, quotidiana, l’alba, il gallo giallo, l’arsura che cresce, le grida delle donne, la sera  sorseggiata nel pergolato d’edera, i fanciulli già addormentati, i cani acquattati, pazienti alla ricerca dell’ultima briciola caduta da quelle bocche rosse, da quelle labbra che ancora deglutivano tutta la saliva del mondo per apprendere il respiro di quei chicchi bruni, di quell’atmosfera, che tra mosche e tafani, dava senso circolare al passaggio delle stagioni, al brulichio dell’ape, al formicolio dei piedi gonfi su e giù per la collina, i panorami dell’orizzonte.

Mangiare e correre, nascondersi, scoprirsi e ritrovarsi, passeggiare, amarsi, baciare l’erba e l’avena, sonnecchiare all’ombra di grossi cipressi e guardare la rada, l’ulivo, le verdi ampie foglie che proteggevano il succo ambrato ambito dopo tanto attendere.

La vendemmia era fatica ed amicizia, era arare e raspare, sognare.

Giorni uguali e se stessi andavano sibillini e paralleli nell’adolescenza al tramonto ormai; settembre, magico ed autunnale nelle sue manifestazioni di debolezza nei confronti della natura umana; battiti e scalpitii scalpicciati, pesticciati e pasticciati errori lessicali, lingue morsicate arse di gole secche accostate accanto a infiniti distese di pettinate zolle in fila fin verso il domani; anni di raccolte e racconti, di gocce, di rugiada, di occhi chiusi abbagliati, accecati dall’aspro del sudore sugli zigomi rossi.

Era vimini e sorriso, era respiro e nuvole, era ardore e rossore, era trepidazione e gambe incrociate, era mani e fascino, era attrito chiaro e festa, era nessuno attorno e carezze del vento sulla faccia abbronzata, ero solo e trino, io, il filare, il futuro vino, figlio artigianale di questo viaggio chiamato crescita.

Ogni bicchiere da allora, calice, coppa, erano gocce di sangue caduto dal cielo, era seme e liquido ancestrale, vie dentro di me che si aprivano chiare nelle tonsille, armonie di spuma che gorgogliavano sottili dal piloro allo stomaco cantando la campagna, i suoi tesori, i suoi uomini.

 

 


Felix

 

Briciole di bracciagambe

Appese tese

Aperte ignare,

l’angolo si apre,

il compasso appassisce,

il tempo distante confonde lo spazio di forme,

nel termine felice di chi,

un non il,

rimane

deluso, inerte, fermo,

langue

ancora

sangue ebete nel suo non chiedersi

altitudini

non credersi vivo.

 


Testi di Mauro Daltin

 

 

Scusa, mi puoi passare il sale fino?

 

 

Elena era seduta a tavola davanti a un piatto di minestra. Il vapore del brodo caldo saliva raggiungendo il suo viso e appannava i piccoli occhiali da vista; allora spostava la testa finché tornava a vedere. Sorrideva e poi portava di nuovo la faccia dentro la nuvola.

C’era silenzio nella casa. Sul piatto di Massimo era appoggiato un coperchio e il vapore usciva solo in piccole quantità dai lati.

Elena riconobbe il rumore della macchina di Massimo che arrivava.

Massimo entrò, salutò Elena con un bacio e si sedette di fronte a lei. Tolse il coperchio e il vapore della minestra ancora calda si sparse attorno al suo viso, come se stesse aspettando impaziente di liberarsi nella stanza.

Elena lo fissava. Quando l’aveva baciato aveva sentito di nuovo quell’odore sulla sua camicia, sulla cravatta, sulla faccia, sul collo. Tutto il suo corpo era ricoperto da un inconfondibile odore di donna. Come da tempo succedeva, sempre più di frequente. Un’altra donna. Non gli aveva mai accennato il suo sospetto. Anzi, la sua certezza.

“Com’è andata oggi, Elena?” chiese Massimo senza alzare lo sguardo, intento a mangiare alcune fette di formaggio e di prosciutto, antipasto, che avrebbe fatto raffreddare la minestra. Quando aveva quell’odore addosso non si rivolgeva a lei con la parola amore, la chiamava Elena. Voleva mantenere le distanze o, semplicemente, non se la sentiva di essere ipocrita.

Elena aveva preso nota di una serie di azioni e frasi che Massimo era solito dire in quei particolari giorni. Come una scolara diligente si era appuntata su un foglio tutte le sciocchezze, le attenzioni mancate e quelle ingigantite a dismisura e senza motivo, le piccole abitudini mutate, gli occhi che non la guardavano.

“Bene”.

“Anch’io, tutto sommato, non mi posso lamentare. Ho concluso l’articolo di cronaca di cui ti avevo parlato ieri. Penso sia un buon pezzo. Esce domani”.

Elena non si ricordava di quale articolo si trattasse e un’espressione dubbiosa lo fece capire a Massimo.

“Come, non te lo ricordi? Quello dell’estorsione ai due bar del centro. Non hanno individuato ancora tutti i componenti della banda, ma sono a un buon punto. Almeno così dicono gli inquirenti a noi della stampa”.

“Sì, sì, adesso mi ricordo…” rispose senza particolare interesse. In realtà non riusciva a pescare nella sua mente quando Massimo le avesse parlato dell’articolo. Di solito, non discuteva mai del suo lavoro, almeno non in modo approfondito. Almeno non con lei.

Massimo aveva terminato l’antipasto, prese il cucchiaio e cominciò a mescolare la minestra. Avvicinò alla bocca il cucchiaio.

“Scusa, mi puoi passare il sale fino?” chiese facendo una smorfia. “È senza sale”.

Elena sentiva ripetere quella richiesta a ogni cena, ma, quando Massimo era intriso dell’odore della donna, aggiungeva sempre l’ultimo inutile aggettivo. Fino. Il sale, da aggiungere nel piatto, non può essere che “fino”. Non puoi mettere il sale grosso. Non ha senso. Il sale grosso lo metti nell’acqua che bolle, non nella minestra o nella verdura o nella carne o nella pasta che hai nel piatto.

“Ecco, Massimo, il sale fino. Vuoi anche il sale grosso? Magari condisci la minestra con entrambi” disse sbattendo il barattolo del sale davanti al piatto di Massimo.

“Ma che ti prende? Sei nervosa? Ho detto qualcosa che non dovevo dire?” chiese senza distrarsi dal dosaggio attento del sale che doveva essere distribuito uniforme sul piatto. Poi mescolò.

Elena non rispose. Morsicò più volte la mela appena sbucciata. Rimase solo il torsolo nudo, ma lei continuò ad addentare con precisione la poca polpa gialla che rimaneva.

“Guarda che la mela è finita; vuoi mangiarla tutta?” chiese Massimo mentre stava raccogliendo gli ultimi rimasugli di minestra.

Elena si alzò e gettò quello che rimaneva della mela nel bidone sotto il lavandino. Sentì la sedia di Massimo grattare contro il pavimento. La porta della sala si chiuse dietro di lui.

Elena camminò cercando di non far rumore fino alla porta e avvicinò l’orecchio alla maniglia. Massimo aveva acceso la televisione e si stava distendendo sul divano. Sentiva i gemiti di sollievo del marito che poteva finalmente allungare le gambe e rilassarsi.

Lei sparecchiò la tavola.

Aprì un cassetto e tirò fuori un foglio e una penna. Era l’elenco delle azioni, delle parole e degli atteggiamenti che Massimo era solito tenere in queste particolari giornate. Sedici numeri in fila con a fianco una frase, a volte fra virgolette, a volte fra parentesi, a volte senza nulla.

Annotò altri tre numeri fino ad arrivare a diciannove. A fianco del diciassette scrisse articolo giornalistico, a fianco del diciotto sale fino, con un’annotazione che rimandava ad altri numeri precedenti e, vicino al diciannove amore.

Scrisse la data e rimise il foglio nel cassetto. Sorrise soddisfatta e aprì il rubinetto dell’acqua calda. Ammucchiò posate, bicchieri e piatti e li gettò a uno a uno nel lavandino pieno d’acqua calda. Sul piatto di Massimo c’erano due formiche che correvano con fatica. Si fermavano quando incontravano i rimasugli della minestra per poi riprendere la loro corsa senza regole. Elena si mise a fissare le formiche e si divertiva a vederle scontrarsi. Prendevano la rincorsa per qualche attimo e alla fine finivano per sbattere le loro teste al centro del piatto. Si toccavano per un secondo e poi cominciavano la rincorsa.

Elena prese il piatto e lo inclinò tenendolo, con l’indice, in posizione verticale. Le formiche sembravano non accorgersi della mutata posizione del piatto e continuavano la loro personale gara.

Elena appoggiò il piatto e impugnò un coltello. Lo sistemò in mezzo al piatto, dividendolo in questo modo in due semicerchi. Le formiche erano divise da questo ostacolo, ma non arrestarono il loro cammino. Presero la rincorsa ai bordi e si lanciarono nello stesso istante verso il centro finendo per sbattere la testa contro la lama. Rimasero immobili un secondo.

Era indifferente che ci fosse un’altra formica o un banale coltello. Elena si compiacque di questa scoperta sul comportamento delle due formiche.

Lavò i piatti, li asciugò e andò in camera.

Si distese sul letto, accese la lampada del comodino e aprì un libro. Si mise a leggere, ma non riusciva a dare un significato alle parole scritte sulla pagina. Chiuse il libro e si alzò per andare in bagno. Sentiva chiaramente le parole che provenivano dalla televisione e si immaginò Massimo assopito sul divano con il braccio penzolante e il telecomando in mano che sfiorava il pavimento. Doveva essere una di quelle trasmissioni di varietà in prima serata. Il conduttore stava presentando un ospite, probabilmente un cantante famoso. Adesso, invece, percepiva in modo chiaro la voce di un telecronista intento a commentare un’azione pericolosa di una partita di calcio.

Di lì a poco Massimo si sarebbe alzato e avrebbe spento la televisione.

Elena si chiuse a chiave in bagno e, seduta sulla tazza del water, prese in mano una penna per concludere il cruciverba lasciato a metà il giorno prima.

Dopo un quarto d’ora lo aveva quasi terminato, mancavano tre o quattro definizioni di cui non aveva la minima idea. Massimo bussò alla porta del bagno.

“Elena, cosa fai dentro? Sono dieci minuti che aspetto”.

“Ho finito, ho finito. Mi lavo i denti un attimo” rispose Elena che si mise a sfogliare la rivista fino ad arrivare alle pagine delle soluzioni. Con il pollice teneva il segno mentre con l’altra mano riempiva le caselle bianche con le lettere suggerite.

Appoggiò la rivista sotto il termosifone e si alzò. Aprì il rubinetto e prese dal mobiletto accanto allo specchio il barattolo con gli spazzolini e il dentifricio. Chiuse per qualche istante l’acqua e si mise ad ascoltare i movimenti di Massimo che, nel frattempo, era ritornato nella stanza da letto.

Si lavò i denti con cura, si asciugò la faccia e aprì la porta.

Si trovò Massimo di fronte, assonnato e seccato per quell’inattesa perdita di tempo.

“Finalmente, pensavo ti fossi sentita male. Si può sapere cosa fate in bagno voi donne?”

Elena lo fissò e non rispose.

Aspettò che Massimo chiudesse a chiave la porta del bagno e si diresse verso la cucina. Riempì un bicchiere d’acqua e aprì il cassetto. Estrasse il foglio con l’elenco e si appuntò il numero venti. Scrisse: si può sapere cosa fate in bagno voi donne?

Piegò il foglio e lo rimise nel cassetto.

Voi donne? Pensò. Voi chi? si ripeteva nella mente mentre tornava in camera da letto. Massimo era già disteso sul letto.

Elena si affiancò a lui e riprese il libro dal comodino. L’odore era forte e si era espanso in tutta la stanza. Massimo spense la sua luce e si coprì con le lenzuola fino alla gola.

“Buonanotte” disse con gli occhi già chiusi.

“Buonanotte” rispose Elena.

Lesse per una decina di minuti, poi si mise a fissare il marito, caduto nello stato di dormiveglia che precede il sonno. Il respiro era regolare e profondo, interrotto ogni tanto da un lieve rumore nasale.

Elena avvicinò il naso alla testa di Massimo e inspirò. Il collo emanava l’odore di un profumo che lei riconobbe. L’aveva utilizzato anche lei qualche anno prima, per alcuni mesi.

Prese le lenzuola tra il pollice e l’indice e cominciò a scoprire lentamente il corpo del marito. Si fermò quando Massimo voltò il corpo per sistemarsi di lato, con la faccia rivolta al muro. Adesso stava dormendo.

Elena riprese a scoprire il marito. La pelle nuda di Massimo che aveva l’odore di un’altra donna non le dava alcuna sensazione se non una sorta di repulsione. Quando il corpo era libero e puro, invece, le provocava ancora dei brividi di eccitazione.

Si mise ad annusare la sua schiena. La sfiorò con le dita. Adesso non inspirava solo l’odore di un’altra donna, ma l’odore del sesso di un’altra donna. Probabilmente aveva passato il pomeriggio con lei. Forse, si poteva trattare di una collega della redazione o della vicina di casa.

Non le importava granché chi fosse. Non voleva sapere che faccia avesse o perché lui la tradisse proprio con quella donna e non con un’altra.

Erano domande che si era già posta, erano lacrime che aveva già versato. Adesso non le interessavano più.

Ricoprì con cura il corpo di Massimo, scese dal letto e andò in cucina. Bevve un bicchiere d’acqua e andò nel salotto. Accese la televisione e si distese sul divano. Fece una carrellata di tutti i programmi, dal primo al quarantanovesimo. Si fermò su una discussione politica, ma si annoiò e spense lo schermo.

Tornò in camera e si distese nuovamente. Spense la luce e chiuse gli occhi

Riuscì ad addormentarsi a fatica.

La sveglia suonò alle otto e mezza; quella di Massimo era suonata un’ora prima e lui era già uscito per andare in redazione. Elena rimase con gli occhi aperti per alcuni minuti.

L’odore non se ne era ancora andato. Si alzò, tirò la corda delle tapparelle con forza e spalancò la finestra. L’aria fredda entrò nella stanza e Elena rimase seduta sul letto con la faccia rivolta alla finestra. L’odore della notte e quello dell’altra donna si mischiavano con quello del nuovo giorno. Inspirava a pieni polmoni, alzando più che poteva il torace per poi lasciarlo cadere di colpo mentre espirava.

Disfò il letto levando prima le federe, poi le lenzuola e il copriletto. Appallottolò tutto in un grande mucchio che appoggiò in bagno vicino al cestino della biancheria.

Aprì l’armadio a muro e scelse le lenzuola pulite. Si mise a riordinare con cura il letto, che alla fine si presentò liscio e perfetto, privo di qualunque piega.

Lasciò la finestra aperta e si diresse in cucina. Mise sul fuoco la caffettiera e andò in salotto. Anche qui spalancò la finestra e levò il lenzuolo che copriva il divano.

Il brontolio della caffettiera distolse Elena dalla pulizia e le fece ricordare il caffè.

Rientrò in cucina quasi correndo. Spense il fuoco mentre gli occhiali le si appannarono per il vapore che usciva dalla caffettiera e il naso si riempiva del profumo di caffè. Amava il caffè, ma soprattutto amava l’aroma forte e deciso che il caffè fresco sprigionava. Riempì una tazzina e lo bevve a piccoli sorsi. Senza zucchero, al contrario di Massimo che ne metteva due o tre cucchiaini.

Si accese una sigaretta mentre ritornava verso la camera. Chiuse la finestra e subito l’odore del fumo si impadronì della stanza. Si distese sul letto a fumare. Quando la cenere stava per cadere sopra il piumino si alzava e, tenendo la sigaretta ferma in posizione verticale, si avvicinava con la mano al posacenere appoggiato sul comodino.

Finì di fumare e andò in bagno. Aprì il rubinetto, si riempì le mani di acqua fredda e si lavò la faccia. Era il suo iter mattutino: caffè, sigaretta, acqua gelida sul viso e pulizia dei denti. Dopo questa serie di azioni, poteva cominciare a programmare la giornata. Avesse saltato un solo passaggio, il cattivo umore e il nervosismo sarebbero cresciuti.

Molto dipendeva da queste quattro semplici azioni. Dedicava a loro mezz’ora circa ogni mattina. Nessuna fretta era consentita e giustificata al suo risveglio.

Si lavò i denti. Il sapore di menta del dentifricio scacciò dalla bocca il gusto mescolato di caffè e di sigaretta. Si sentiva pulita con l’alito che profumava di menta. Era come se il fumo e il caffè fossero ancora legati alla notte mentre il dentifricio rappresentasse il definitivo passaggio alla mattina.

Iniziava una nuova giornata senza quell’odore in casa e con il sapore di menta in bocca.


 

Ogni cosa al suo posto

 

 

 

“Pronto?”

“Sì, buongiorno, vorrei delle informazioni per prenotare una camera doppia” disse Roberto, che si era appuntato tutte le domande su un foglio. Dall’altra parte del ricevitore aveva risposto una ragazza.

“Sì, mi dica per quando le serve”.

“Pensavamo verso la fine di giugno, verso il venticinque, per una settimana”.

“Attenda un attimo in linea; controllo sul computer le prenotazioni”.

Dal ricevitore partì un pezzo di musica classica. Roberto appoggiò il telefono tra la spalla sinistra e la guancia mentre, con una penna nella mano destra, cancellava la prima domanda che compariva sulla pagina.

“Sì, è ancora in linea?”

“Sì, ci sono”.

“Allora, c’è ancora qualche camera libera per quel periodo”.

“Se non sono scortese, vorrei sapere se la stanza 207 è disponibile. Sa, è il nostro anniversario di matrimonio e desidererei che fosse tutto come dieci anni fa, durante la luna di miele: stesso albergo, stessa camera, stessa atmosfera” disse Roberto come per giustificare quella richiesta.

“Attenda un attimo che controllo”. La musica classica riprese.

“Non ci sono problemi, la 207 è libera”.

“Bene. Scusi, posso chiederle alcune informazioni? Sa, in dieci anni possono essere cambiate tante cose”.

“Certo, mi dica”.

“Avete un posto macchina custodito? Veniamo in auto e sarebbe un problema lasciarla parcheggiata sulla strada” disse Roberto mentre eliminava anche la seconda frase.

“Sì, abbiamo un parcheggio interno all’albergo. Non è custodito di notte, ma, comunque, non ci sono mai stati problemi essendoci sempre nella hall il portiere”.

“Perfetto. Ho letto sulla guida che il trattamento comprende la prima colazione e, con un costo aggiuntivo, è possibile anche cenare”.

“Sì, la colazione è compresa. Se vuole, l’albergo è anche ristorante e con quindici euro in più può cenare in albergo” disse la ragazza con voce cortese.

“Il bagno è in camera?”

“Certamente. Tutte le nostre camere sono provviste dei servizi”.

“Benissimo. Scusi, sulla guida vi sono indicati due prezzi, uno per l’alta e uno per la bassa stagione”.

“La camera viene 100 euro: giugno è considerato alta stagione”.

Roberto fece una smorfia di disappunto. Pensò che non gli era ancora capitata la fortuna di trovare un periodo di vacanza in bassa stagione. Cerchiò con la penna il prezzo più alto che compariva sulla guida.

“Va bene, allora. Confermo la prenotazione”.

“Perfetto. Mi può lasciare un suo recapito telefonico per qualunque evenienza?”

Roberto dettò il suo numero di cellulare. Fissarono l’appuntamento al 25 giugno, poi si salutarono.

Roberto chiuse la comunicazione e scrisse sul foglio le ultime indicazioni. Riprese in mano la cartina e studiò con cura le strade da percorrere. Segnò con la penna il percorso da seguire. “Non ci si può sbagliare” disse ad alta voce. “In ogni caso, ci dovrebbero essere delle indicazioni precise”.

Si alzò e prese dal cassetto di un mobile una cartellina trasparente. Dentro vi sistemò la cartina stradale piegata, la guida e gli appunti.

Uscì in terrazza e si distese sulla sdraio. Tirava un’aria fredda. Accese una sigaretta che si mise a osservare man mano che veniva rapidamente consumata dal vento. Aspirò un paio di volte, poi spense la sigaretta in un vaso pieno d’acqua dove galleggiavano un’altra ventina di filtri gialli.

Pensò a Firenze, ai possibili cambiamenti che quella città poteva aver subito in dieci anni. Dieci anni. Tanto era trascorso dalla luna di miele in Toscana. Una settimana a Firenze, l’altra divisa tra Siena, San Gimignano, Volterra, Montepulciano e Pienza.

Rimase sul terrazzo ancora una decina di minuti, poi tornò in cucina e cominciò a preparare la cena.

Voleva che fosse tutto perfetto: la tovaglia, le posate, i bicchieri, il cibo, l’annuncio del viaggio. Tutto in una sera.

Apparecchiò con ordine e, al centro della tavola, sistemò una candela e un mazzo di rose che aveva comperato la mattina.

 

Guardò l’orologio. L’arrosto doveva essere quasi pronto mentre la cipolla soffriggeva sfrigolando nella padella. L’acqua bolliva nella pentola. Pesò la pasta: due etti e mezzo esatti. La gettò nell’acqua. Aprì la credenza e prese due bottiglie di vino rosso che sistemò sulla tavola.

Il timer cominciò a suonare.

Roberto prese poi dal forno la pirofila e la appoggiò tra i due bicchieri. Con un coltello tagliò l’arrosto per controllare se fosse cotto a puntino. Soddisfatto, assaggiò la pasta e dopo trenta secondi esatti la scolò.

La cena era pronta.

Guardò l’orologio alla parete. “Le otto in punto” pensò. “Possiamo cominciare a mangiare”.

Riempì di pasta i due piatti e versò il vino.

“Un brindisi” disse alzando il bicchiere. “Al nostro anniversario”.

Avvicinò il suo calice a quello appoggiato di fronte al tavolo. Accompagnò il tintinnio con un sorriso.

Bevve tutto il vino e iniziò a cenare. Una volta terminata la pasta, cambiò i piatti fondi con quelli piani dove sistemò due grossi pezzi di arrosto e delle patate. Mangiò la sua parte e, alla fine, tolse dal congelatore una vaschetta di gelato.

Prese due coppette dalla credenza e le riempì di gelato fino all’orlo.

 

Versò quello che restava del vino nel suo bicchiere. “Al nostro anniversario, amore, e a questa splendida serata” disse, provocando lo stesso tintinnio di qualche minuto prima.

Allentò la cintura dei pantaloni, che iniziava a stringere troppo, e rimase alcuni minuti con lo sguardo fisso sulla candela.

Si alzò e iniziò a risistemare la cucina.

Buttò nella pattumiera la pasta e l’arrosto che giacevano ancora fumanti di fronte ai suoi piatti vuoti. Le palline di gelato si appiccicarono nel sacco e si mescolarono con la pasta e l’arrosto.

Sistemò con precisione le posate, i piatti e i bicchieri nella lavastoviglie e andò in terrazza per scrollare la tovaglia

Quando ritornò in cucina tutto era in ordine. La lavastoviglie faceva un gran rumore. “Dovrò comprarne una nuova” pensò.

Si avvicinò alla candela, inspirò un po’ d’aria e, con un soffio deciso, la spense.


Testi di Gianluca D’Andrea

 

 

hai esplorato il suo corpo stanotte

mentre le pagine

sondavano il cosmo, mentre anime di pelle

ne riconoscevano i segni soffiando

 

 

Facola

 

la terra si spegneva nelle orbite

quando le lune solcarono le volte

i baci dei bambini raggiunsero

le macchie artigliando la fotosfera.

I bambini badano alla luce

quando le distanze sbiancano sul punto

 

***

 

i bambini amano il bagno di carne

le loro coscienze spalancate

sono liberate e accese.

Le strade di metallo mescidato

incrociavano vette d’azoto

e residui puntellavano

l’esosfera

 

 

Resilienza

 

paura che il rapporto crepi, si sfaldi

nei nuovi desideri, alibi gelidi.

I bambini affrontavano i contrasti,

sfrontati e proiettati petali

velluti elastici imprecisabili

schiudono le scie e le cancellano

 

 

Fillotassi

 

ai piedi delle catene i bambini masticando

estraggono residui psicometrici.

Fiori rossi cingevano cataste sconfinate

reperti e filigrane

nell’espansione del cosmo

colmo di rami

 

***

 

la libertà è dei bambini sulla pelle

nell’odore dei loro brevi sudori

 

***

 

i genitori si sono persi

nel vuoto degli avi

i figli sono semi immensi introiettati

e il vuoto è un pericolo eterno.

 

I figli dei figli sono mostri a sei facce

asciutti esaedri nominali

i dissettori proiettati

 

***

 

i figli osservano i capelli delle

donne, distese inesplorate avvolti

flutti. Non temono, chiedono la

carezza; alcuni affondano altri sono

inebriati

 

***

 

mille vite ci separano

micrometriche distanze ha spalancato

l’esperienza. Il contatto rabbrividisce

e comunica distanze siderali

aggrappandosi le copre

***

Non saper vivere senza,

non poterlo

 

Per i tuoi occhi bruni

per le grandi mani

per quel dito medio

storpiato dalla penna.

Non c’è vita nella carne

ma solo il tuo corpo,

la tua voce distante

per qualche minuto…

 

***

i ragazzi schiantano frugando rughe

le labbra spalancate, le morbide.

Fluttuano le curve.

Nei servi recessi recludono lo sperma

e le ragazze violano i fondali

 

mentre l’ombra reboante

la salamandra cosparge

di fuscelli

 

***

Testi di Simonetta Della Scala

 

IL DISTACCO

 

So che mi mancherai come terra inferocita, sabbioso, croci di tortura nel cancro friabile che mi getti indosso fuggendo. Ma non sei altro da me. Ed io non conosco misura per lasciarti. Torsione in assenza di requie.

 

Acqua. gemiti. Acqua.

Hai finito di spogliarmi, ma i vestiti sono incrostati, sulle fasce nervose, dalle cartilagini.

Mai. never, palpi sulle gelatine, fari di scatto.

Acqua. Acque.

Superfici: denso liquido-decomposizione.

narciso corvino tra i capelli. odi le mie braccia, quando ti tocco e continui a volermi. e continui solo a non volermi.

Non si raggrumano seni e morsi dai tuoi fantasmi.

rendimi cassandra, nebbia, medea.

siediti qui: sul nero e sul niente degli arti.

sali dentro il labirinto, fuggi dai fantini gremiti, sali dentro questo labirinto.

zanzare, distacco, origine.

Siete nel suo corpo, siete dentro.

mescita di cancro e greto.

certe di ogni spugnatura.

acque. l’acqua.

sai di  me decubito; lascivo.

Brani; linea? ... demoni in sesso fluido.

la mia carne è il tuo pasto, premi sulle fratture, senza gestazione.

spose in SNC. senso...

prigioni il fibroma di pelle.

Nella mia-tua sacca che trascende.

rigido... rigido.

Labi di sonno.

Resina; sfera pesta alla guepierre.

Trattengo saliva. Non è mia.

Crini infusi di bersaglio. La chance e s i s t e v a .

Abiti i lacerti del mio mantice, come il Suo spettro insaziabile.

E batti percussioni dall’inconscio. lasci che pruda sulla materia.

Noci di amnesia alle sirene compresse in giugulare.

Cancellarti in volto. Cancellare.

Tergi questo scettro che mi hai infisso tra le vertebre.

Non sceglierai, più, veli da spezzare. Non ho soma in te ormai.

never. never. La chance n o n  e s i s t e v a

e aderisci, ti scuoti, come unica cellula che sento.

la vertigine, l’elettrodo, la Tua Cellula sono ancora io.

 

In itinere

 

Le sadiche vergini addentano le tue mani protese.

Scavi sulla lacca per fermare il dolore.

Di lux vergare ogni vergine al tuo vizzo.

Oltre te aghi, ossessione soltanto, oltre me: muoviti danse, e sei tu.

Mi hai lasciato la morte su asini asciutti.

Parlo senza distinta, viatico, origine.

Sento nettàre da quei vascelli che risuonano al ventre.

Sei tu con un basco bianco a non esistere,

sei tu che mi cerchi frastornato senza realtà.

consumarti di materia

scuotere la dama gitana

che mi insabbia di nostalgia.

Hai voluto lasciarmi, non ho potuto lasciarti.

E sangue il turbine a monadi estese.

Hai voluto che fossi una membrana.

sensi, tuoi sensi.

E quando di alloro saprà la tua bocca,

quando trarrai di uncino dalle labbra in me,

mi vestirò di torcia

per cessare, un attimo, solo un attimo,  di carezzarti.


Coma

 

Dose cortice

in lucie.

Ballavi di una danza violenta.

In sarco luminàl

destro.

Sognai che mi lacerassi convesso, i capelli annodati.

Logos viri

ai digitali.

E palpavi, coriandolo ogni muscolo fermo.

 

Attoniti dalle ombre, maschere alla calce di sinapsi e volevano che i rombi torturassero ancora lo sfarinare sulla polpa in asse di midollo..

Formazione, ologrammi sessuati in assedio, l’ontologia onirica in gestosi con l’essente. erano i soli essenti.

Formazione, assetto, trincea che “aspare”.

Bianchi tartari corvino sui dadi in formule all’inconscio.

Annodano le trecce di Sulspicia.

Hai vinto la mia libagione, ti sono rena fra le mascelle.


La carne

 

hai nervi e sorelle, il padiglione di coralli blu.

Ho rivisto la tua ombra; /  tatto senza consapevolezza, dal tuo scheletro rapisci, e quell’ombra è ancora la mia.

il domatore apparentemente frange lemmi ad uguali sussurri.

devi mestare cavalli ed implosioni senza livello,

ologrammi di parole nascoste, non dette, scomodi ologrammi.

Ma tieni questa resistenza di sale, di vuoto, di sangue povera di direzioni.

E afferrane una, le corde che si schiodano pudiche e voluttuose dal pianoforte fino alle te mantice di terra pietrosa.

Forse, non manca molto e scioglierai le bende.

non esiste libertà.

Ma forse io, scioglierò le bende.

E quell’arcano di cornea infuocata sul nulla, ed il silenzio delle mosche avide, sui visi, cartoni. solo istanti, musica dalle fascine della frusta izzata.

brandirsi un’unica preda con il corpo di altri.

In uno scanno non posso cedere e smettere di cavare occhi di scintilla, occhi senza dolore.

no more, land. no more land.

distici fortuiti, posso avere ancora nettare dalla fiaschetta?

Uno o due passi, dicono che potremmo essere sedotti dalla battigia domani.

Ho sensi, sesso, vertigini, vuoto. Ho lallabay, sensi, cura, deflorazione.

Ti domandi perché ti odio quando violenti i miei no, e solo ti amo nel presente

come un velo di chi tu sei stato anche mentre estendi il dolore.

Ma di carne ora sarò vestale senza tatto, non il mulino sulle pelli congiunte.

Smarrirsi e poi continuare, dosa la passione di questo stanco, violento sangue.

No, no, lascialo a me. Lasciami con lui.

Forse una notte, simile a questa, forse quella fiaccola di notte: labbra su ogni sesso.

Carne. insabbiano le spugnature ma tu corri su ogni carne qui presente, per aspergerla del tuo folle sesso non senso.

 

     

 

Novembre

Tornavo da teatro.

Novembre.

Sola priva di paura nella notte criminale.

Ma col terrore di me stessa.

Vorace di aggressione, io per prima senza maschera.

Alcool, mitigarsi.

chi sono io  per chi?

Guardami! Chiunque tu sia, guardami!!

Perché volete uccidermi?

Perché non io regina, sposa, sorella, vestale, domina?

Vorrei che tu mi credessi, non so chi sarai, se sarai...

Lavare le cicatrici. Lo senti questo liquido fantasma sul voltaggio?

E perché no, confondiamoci tra le musiche; assenti verso il resto.

Consacrami di croci, verginità, assedio.

Porta sangue dai catini. Rendi paglia sulle reni.

Avvolgi la fuga che imprimerò al solo distinguerti.

Vuoi che ti afferri di bende fra i capelli...

Vorrei perdermi senza dove... mani di sconosciuti sul derma spoglio di sesso.

E Voi, Voi, Chi vedete  sulle luci del palco ora?

Siete dentro, siete nel mio corpo, confusi dalle fibre, SNC; tutti voi.

Tornavo da teatro.

Novembre.

Persisti oltre te stessa, lo so vuoi lasciarli soli, ma no. Non ancora. Ancora no.

Fiori, viaggi, taste, caos?

Brandisci amplesso, placenta, sensi, materia.

Fretta. Inerzia. Rigida? Elastica.

Tenditi di scatto e resta fermo.

Vigila sul confine, non lasciarmi andare!.............. non fermarmi.

Sii la vita che non so.

Che non ho.

Tornavo una sera in novembre da un teatro fantasma, forse... ed al centro banco di spettri.


Candele

 

 

Più stanze mi hanno ricevuto con la fascina in scintille di candele accese.

Erano le case di uomini passati, erano i sensi che ho lasciato lì per sempre come in uno scatto fotografico.

Utero pulsante che ha stretto gli amori a sé per non lasciarli andare, che si è mosso fra loro per avvolgerli denso, profondo, duttile.

E che ha lacerato in mancanza, il contatto poi negato con il primo senso: l’amore charme che violenta ogni vita.

Il bisturi, sul destino, ha sezionato la passione in quella realtà e mi ha negato di circondare di me, della mia pelle, ancora e ancora e ancora, il senso-sesso liquido di quelle anime vestite di corpo su me.

Perché si desidera tanto essere nell’altro soma, penetrarlo di noi, consumarlo senza fine...

Perché non voltarsi e permettere che fuggano, come desiderano, come non possono.

Cos’è vita? suono, percezioni, madre, gestazione, evasione impossibile e cercata per cancellare il nulla endemico.

E’ Ridere , ridere di tutto questo madido plastico indecifrabile.

Che il mio sangue sia tuo, dono di cassandra ferita.

Sei pallido, come in uno specchio si rifrangono gli atti fantasma vissuti sul ventre.

Sussurri di immagini, velo, vertigine, parole scandite sui miei occhi di allora.

Quando le tue-vostre pupille si allargavano per cercarmi e non permettevi che mi sciogliessi dal tuo abbraccio, nudi ad aderire con ogni fibra all’altra fibra che batteva calda.

Un Natale, mi corresti incontro perché non si strappasse mai la corda di anima e pelle tra noi.

io sono quel natale, sono le prime candele accese in marzo, sono l’utero vuoto

di un tragitto senza fine.


Meduse

 

 LUI: Gremirò gli spalti della tua sorte, sarò la rena che ti scende dentro senza pietà.

Ti porterò fra le stoffe dell’alcova karmica, il tuo doppio, la tua fede, il destino che sarò in te, sarò io per te.

Violerò la tua lana ruvida in granella e aprirò col mio bisturi arterie e sesso di te, donna.

Nutrirò le tue paure, ma tu saprai solo di un dondolare scomposto e speziato nella psiche.

Resisterai, resisterai per lunghi labirinti rosso crema, labirinti,  diffidenza, passato, io sarò proiezione e gusto di una fede cangiante.

Sarò padre delle ferite che emettono ancora sale, fiotti di te che afferrerò danse.

E saremo splendidi ballerini in un parquet stenico e lucente.

 

 LEI: Mi hai ripudiata nell’alcova. hai violato il patto.

Non c’è nessuno con me, Tu eri altrove.

Hai danzato un tango qualunque con la mia anima per succhiare linfa, desiderio, per vedere in fondo ai miei occhi che avrei strappato i tuoi pur di averti.

Il mio doppio è il nulla, l’immagine nello specchio che non c’è.

Meduse sui pori in creta di quelle notti insieme.

 

LUI:Volevo solo sfiorarti. Non so chi sei.

Sono distante, non è viva adesso quell’alcova per te.

Non so chi sei. Ma non mi importa, non mi importa comprendi?

Volevo quegli attimi di te diversa, per non pensare, per crederti, per credermi.

Sono carnefice, cieco, sono il tuo nessuno.

 

LEI:C’è il tuo profumo organico nei palpi che non mi lasciano andare.

Ci sono i flash, a scarto continuo nel maledetto cervello.

Sei memoria di sangue.

Sei il nulla che temo dentro, l’acqua che scinde gli elettrodi, il voltaggio senza requie.

Volevi questo sarcofago.

Io ti ho visto in volto. Ho toccato quel volto.

 

ALTRA VOCE: La terra è abbandono, è vento di esseri che continuano a cercarsi.

E’ metafisica senza incontro, violenza.

La terra è lei che lo aspetta senza potersi esimere da se stessa ed è anche lui che l’ha lasciata discosto e può vivere, vivere ancora.


Lusinga di gelo

 

Domenica pomeriggio, interno.

Il contatto imprevisto, insperato, scardina le mani disgiunte. Scatti non pensati, scatti sui derma pressati vicini, rasoio di midollo.

Domenica pomeriggio, fitta e sottile pioggia al di fuori.

Avidi e sincopati baci da quelle labbra, violenza di sensi cangianti.

Ti sento muovere le membra sulle mie, come se le volessi più della vita, più del tempo, senza alcun tempo.

Pomeriggio, sera. Non posso andarmene, non posso cessare di toccarti.

Fraintesi, granella di incisione, fraintesi, e ti perdo nell’attimo in cui affermi di amarmi.

Ti perdo lontano in un altrove inaccessibile “per sempre e malgrado tutto”.

Ed è senza un perché, senza più pelle che ricorda di quell’amore scomposto e vorace.

Ed è senza.

Sei la mia notte, quella dell’ adesione nudi, della cura.

Sei la notte della negazione, nostalgia di un lacerto anche minimo  di te, nostalgia insaziabile.

Martedì notte, interno.

Mi sorridi e sorridi perché non sapresti mai lasciarmi, sostieni.

Sei quei sorrisi, il niente per te, un qualunque vetro bagnato da pioggia furiosa.

Indosso, vestale di bianco, le sete che tocchi agile, ma non riesco a distinguere la tua maschera.

Giovedì notte, piango il dolore di non averti capito né visto al di là.


 

Argilla

 

 

Sai di notte e d’argilla.

Vedo bastioni misterici ancorati sul tuo seno e le cosce imperlate e costrette.

Greto di silenzi, ansia di frantumarti per tergerti di me.

I dadi scalzano i mattini in cui sento la tua schiena. Andarsene.

E ti ascolto come una sabbia di vena, come il cerchio in cui mi hai chiuso dentro.

Talvolta vorrei la tua creta, i capelli freddi for ever, il tuo volto scomposto, il tuo dolore.

E allora, impersonerei il vuoto perché sia nulla dopo, perché tu sia densa e nient’altro.

Mi porgerai passato, lacerazioni, inganni.....

Ma io sarò domatore e benda fresca.

Mi guarderai a lungo, mi vedrai a lungo, mi amerai?

Basterà tutto questo nel destino che tieni fermo in gestazione?

Sì io bramo il tuo amore, che tu sia creatura dentro me, che io doppi ogni distanza, ogni paura, ogni tentazione verso la fuga.

Dammi la tua pelle, dammela adesso, dammi sensibilità e percezione.

Sono rapito.

Ho paura io adesso.

Ma tu non essere, per una volta nel cosmo, lontana da qui.

Lontana da qui.


Soglie: storie liminari di estremo disagio

 

 

La donna.

Gremirti di me,  muschio sui seni.

Gettarti fra quelle onde, so che potrei annegarmi, so che ti vedo, qui, ancora e che non sento altro di te che il vento che trama  brividi inside sul  tuo derma, inoltre.

L’uomo.

Salire scale infinite per raggiungerti ovunque tu sia.

Fischia la medusa del passato. Perché un amore finisce? A volte mi sono chiesta se sia mai avvenuto sul serio che i miei occhi ti penetrassero.

Ottobre: stage intensivo per attori: dieci selezionati, io gettata fra loro.

Luce del sole a premere sul buio, lavoro profondo sul corpo, bende, sottile inquietudine ma anche senso di liberazione, dalla me stessa codificata per il fuori, dalla mia casa; divieto di comunicare con l’esterno durante i tre giorni del corso.

Realtà che si staglia in una vertigine di ciò che qui non esiste: nessuna regola del mondo che non sa, che non c’è.

Laguna fra i nostri corpi domati e ferventi. La luce cangia dal possente pertugio della finestra in fondo alla sala in cui i nostri soma vengono riplasmati e stimolati in ogni corposità dei sensi.

Poi l’acqua che serpeggia dai catini e fra le mani che accarezzano a turno chi che è pronto a ricevere questo bagno tiepido carico dell’energia che dalle estremità dei compagni, passa, dolce su scampoli pronti a tergere. Si riconoscono ancora a mala pena  i tocchi di chi si distende su te...... E poi il buio: mani immobilizzate, fasciature impenetrabili sulle pupille, ad esplorare il fuori, calpestando ceci a piedi nudi: sublime non potersi sottrarre. Salgo una ripida scala: mia antica fobia, di cui il regista non era affatto a conoscenza, inizia da allora, il momento della creta che si plasma, l’olistico percepirsi morbida materia sotto le sapienti mani del domatore, del genio.

Ricordo con nostalgia il momento precedente in cui bendati, a coppie dovevamo riconoscere l’odore del nostro partner sparpagliato nel salone, dopo averlo ben fiutato nella piega cava del collo. L’odore del mio compagno era inebriante, lo riconobbi subito e fu come ritrovare me stessa tutto ad un tratto. Inizia il silenzio tassativo che si scioglierà solo la mattina seguente.

Alcuni, dopo un’ilare cena frammista a delicate esibizioni del regista per smorzare la tensione, fanno suonare suggestivi cd; a gesti domando se mi devo coricare, ma mi viene fatto capire che, forse, è meglio attendere ancora. Un po’. E questa sosta mi vede pressata su una sedia al lume di astri lontani. L’uomo che avevo riconosciuto, che mi aveva fatto sobbalzare di gioia arcana, di vita, vertigine, è anche lui solo a giocare con un bastone quasi fosse un rabdomante.

Mi si avvicina: lo fermo, lo faccio accostare a me per inebriarmi ancora del suo personale odore organico che tanto mi ha scossa. Gli poso una mano sulla guancia e lui la accoglie stendendovi sopra la pelle ispida: so che ci ameremo. Rimanemmo molto, molto a lungo ad annusarci, poi il suo bacio, lento, passionale, vorticoso, un ballo nella stanza semideserta. Nessuna parola a intercorrere fra noi, solo i corpi possono comunicare,come da dictat precedente.

Lui con me, si chiude sovente il volto dopo avermi amata sul letto, come se tutto ciò gli apparisse folle e impareggiabile allo stesso tempo. Un dono. Per entrambi. Lui scrive su un fianco del mio corpo nudo che ricorda chi sono, che rammenta di avermi già vista almeno in due occasioni.

Prima che il regista si alzi, il mio lui torna piano, rendendo soffici i passi, nella sua camera non poi così lontana dalla mia. C’è forse ancora qualche ora all’alba piena. Credo di essermi assopita soltanto, poi il viso rassicurante del mio domatore venerato, viene a “svegliarmi”.

Una notte dolcissima, ricordo distintamente che ciò che mi colpì di più, in assoluto, di lui e che mi fece innamorare nel profondo, fu che dopo il coito, alla mia richiesta se preferiva andarsene, lui rispose di no e mi strinse, lì fuori da tutto lui ed io.

Non conoscevo la sua identità, forse il nome... ma cosa importava sapevo di lui intensamente ed  era questa la chiave magica verso il mio cuore. La mattina e durante tutto il successivo jour di stage, lui mi evitò; impertinente a tavola gli chiesi perché; rispose semplicemente che era timido (ma qualche tassello mancava....) temevo che non mi avesse ritenuta adeguata, abbastanza densa per il suo arcobaleno, temevo e basta.

Alla fine del secondo giorno senza contatto con l’esterno - fantastica esperienza – in un modesto angolo che sapeva di dolore gli chiesi perché mi avesse schivata tutto il giorno, e gli dissi che mi serviva un chiarimento. Acconsentì.

Andammo in un cantone buio, su una panca, si accovacciò sul mio ventre e dopo molte esitazioni mi disse che aveva una compagna. Da allora io, mi aprii in uno squarcio roteante. sapevo che non avrei retto, gli dissi che l’indomani saremmo tornati ai nostri mondi fatti di creature, ma questa anche se straziante era ancora la nostra notte e di quest’ultima come della precedente, avremmo portato dentro uno scarlatto indelebile..

Sentivo pulsante lacerazione, dolore bruno e che non ce l’avrei fatta a lasciarlo andare ma mi ripetevo che se lo amavo come sostenevo in me dovevo lasciarlo libero di scegliere: ed io non fui la sua scelta. Quell’ultima notte screziata ci amammo come mai nella mia vita e, sottovoce, parlammo a lungo di colori, di poesia, emozioni, sentimenti, futuro, sogni... E i suoi pensieri colorati tinsero il mio cuore di lacche indelebili.

Se ne andò dalla nostra piccola alcova verso le sei del mattino.

Dovevo essere forte, lo stage mi aveva messa a nudo, mi aveva resa creta ancora più morbida ed oltre a questo io conservavo la mia endemica assenza di pelle, scudi o difese protettive di fronte all’amore e all’emotività.. E quello è stato amore sì, bruciante, fra due anime che avevano poco tempo per compenetrarsi anche, nella calce della realtà..

La mattina della partenza facemmo il più bell’esercizio di tutto lo stage:il gonfiabile, esperienza estatica per la quale non trovo alcun lemma adeguato.

Ci salutammo nel parcheggio dopo che tutti se ne erano andati. Lui si ritrasse, tra poco saremmo tornati al cosiddetto mondo vero.... mentre io ancora ero in quelle notti....in quel contatto.

Piansi per tutto il viaggio di ritorno, e anche dopo, per lui, per me, per ciò che non avremmo mai vissuto.

Stanotte l’ho sognato, diceva che si era riconciliato con il passato e sorrideva.

Alla mia dipartita dallo stage seguirono tre mie performances, e poi l’annullamento di me stessa, il tentato suicidio, perché non valevo per nessuno, neanche per lui che sapevo avere toccato la mia anima spaventata e desiderosa di vita, la mia anima scabra, tanto fiduciosa nell’amore, ancora; entrai in un coma profondo dal quale la medicina si meraviglia di come ne sia uscita. Mentre guardavo il sentiero buio della morte ebbi grani spessi e liquidi di paura e chiesi a mio fratello di chiamarLo perché volevo dirgli:”Ti amo”, perché volevo un po’ del suo accudimento, ancora una briciola del suo calore rivolto al mio soma di grinze. Il resto è oramai storia del numero precedente,la dialisi, il risveglio, il suo diniego di vedermi ancora, la mia solitudine feroce e a mulinello.

Non abbiamo mai parlato dopo, sebbene, ci siamo incontrati spesso in inverno, e sebbene io abbia cercato il suo sguardo per dirgli che mi ero riconciliata con il dolore della morte e del suo rifiuto.

Ah, dimenticavo prima che il mio dolore tracimasse, trascorremmo tutta una notte al telefono e lui mi parlò così saldo e dolce, mi lesse dei suoi scritti e mi ammaliò con la sua cura, anche a distanza, verso la donna che in fondo, aveva amato fuori dal cosmo degli umani.

 


E quei Sensi ci lasciarono,

tra i cristalli arcani, della notte.

(Frase Conclusiva performance)....






Testo di Francesco Massinelli

 

 

Stagno

 

Vieni qua, Frelen! Senti dall’entroterra il suono di questa campana campana! Non sono Gianmauro, l’alternativo cliente dell’economia globalizzata, che conosce le sue responsabilità, che sa dove ricadono le scelte che fa. Bravo come una cometa periodica, di quelle che ricompaiono ad intervalli di tempo regolari, io ritorno da te, dominato dal denaro e dal profitto. Voglio essere accolto degnamente da te, sono ricco. La mia ricreazione è sempre e solo quella di rivederti. Ma tu non mi consideri. E sbagli. Sistemi economici imperfetti si rivelano funzionali. Ti posso accudire coi soldi. Te ne stai seduta davanti una pianta grassa alta, un fortino di legno d'olivo, un banco delle elementari e un salvagente con dei grandi pesci colorati. Dopo che ti sei ben guardata dall’autorizzare la produzione di pneumatici aventi nel disegno del battistrada un pentagramma ti senti furba, incredibilmente furba. Ed io non esisto per te. Ma lo sai che ho titolarità di progetti e patrocinio di enti? ONU, Banca Mondiale, OMS, Organizzazione mondiale del commercio, pur da riformare, mi vedono contento.

Superare la confusione tra il saper di non amare e cercare subito il distacco per non soffrire è la tua principale reazione al vedermi. La furbizia con cui hai addomesticato la paura, il tenerti fuori dal dolore, le volte di vicinanza alle crisi sentite appena, ti fanno paragonare ad una parente del milite ignoto, ad una donna che soffre per l’altro in un legame che non la coinvolge più di tanto. Chi s’interessa delle sorti della nappa di Marta (si soffiava sui fogli di carta, andava cercando odori e profumi, si soffiava nei libri socchiusi, incontra l'alitaccio di una voce severa, allorquando, già da tempo rossina, sentendosi pulire diventò verde carina) è più concreto di te. Tu prima di diventare la galassia che credi di essere andavi a fare i corsi che più abbindolavano gli sprovveduti. Ancora mi commuovo per quando sei rimasta impressionata dal racconto di una navicella spaziale che viaggiava a palla in direzione del pianeta Calippo, a nord-ovest della Galassia Tritone, dove si presumeva essere presente il virus dell'affetto. Ti eri talmente identificata con il compito dell'equipaggio, impossessarsi del conteso bacillo e poter contaminare così tutto il pianeta Terra, che per tre giorni non leggevi altro che fantascienza. Ma ti rendi conto? Lo capisci che le tue esperienze sono più fuori dal mondo delle mie? Nel leggere i fogli che rimangono a fine giornata in una macchina da scrivere giocattolo esposta in prova ai clienti c’è qualcosa di più concreto, di più avvincente, di quello che ascolti tu ordinariamente.

Il mio nome è ancora Luano, penso che te lo ricordi per quanto lo hai pronunciato. Adesso ho una corporatura che vestirla è un dispiacere, e non indosso abiti da poco, spezzati ma non spezzettati. Piaccio per il look e la gente si fida di me. Mi affida le chiavi dei lucchetti. A coste largo è il mio pantalone di velluto. L’ultima volta che mi hai visto, al rimbalzo delle sfere dei cuscinetti lanciate con una fionda, io stavo a cercare un riparo. Rispondevo lanciando palline di gommapiuma pubblicizzanti una vettura e mi sentivo come un fungo nell'acquaio, pulito per essere infarinato. Adesso però sono cresciuto, mi sono evoluto. Sto tra i terabyte ed i petabyte, mi occupo d’informatica ed ho messo da parte un gruzzoletto che certo t’interesserà. Vienimi incontro. Posso restituirti i soldi che mi hai prestato. Nel mio animo c’è un graffito di reppettaro pentito, con la frangia scalata e fermata dalla lacca, che mi fa sentire in un punto morto se non ti rendo il prestito. Nel fracasso che si fa attorno alla linea discriminante che separa la morte dalla vita l’integralismo laicista che mi si è rivelato proprio un’equanime messinscena ti può servire. Se tu mi darai retta non ti ritroverai nel camposanto di un califfato sola con i soldi che ti ho reso. Ti troverai con l’energia giusta, un po’ nella vita e un po’ nella morte, nell’area strategica del futuro.

Ora che nel mondo vengono ridisegnati e ridislocati i poteri forti, ora che le municipalità in cui funziona il bilancio partecipato di giustizia ti potrebbero trovare muta e zitta, io farei entrare anche te nel posticino buono, nel lavoretto invidiabile. Solo se tu ti decidi a venir con me. Vincolata da banche e grandi organizzazioni mondiali, facendo la scelta di asservirti ai grandi produttori perché prendono sussidi maggiori,  potresti produrre per l’esportazione lasciando ai piccoli produttori il mercato locale. Facendo i conti con governi e multinazionali potresti anche tu vedere che la globalizzazione ha già incontrato la guerra, sa già come non spendere sui macchinari, ha manodopera a costo zero. Quanto a me, comunque, l’ammontare che ti devo corrisponde al prezzo di quella rivista di destra oltranzista e reazionaria, non liberista e democratica, che comprammo in quell’Europa che determinava un equilibrio nel lontano 1993.  Mi spiegasti un pregiudizio sapendo come liberarmi dagli stereotipi di oggi.

Puoi ritrovarmi in Uruguay, lì la maggior parte della popolazione discende dall’Italia. Lì per te sarà più facile attuare i modelli che hai teorizzato a Tittignano. E poi, Gianmauro. Non flirtare con lui. È un domatore sconcio. Gli piaci perché sei strepitosa e spiritosa ma ti marchierebbe, sciocchina. Non starlo a sentire quando t’adula. Gli avrai sicuramente fatto la mappa per poi ritrovartelo a casa in un abito di saia blu e un passepartout. Sta attenta, fasullina, sta attenta. Ad una signora gli ha fatto scoppiare una varice, ad un’altra l’ha fatta svenire con un moto epicicloidale. È un guitto ghiotto che ti scuote e ti spoglia se non ti difendi con una sorta di panoplia di pistole. Decanta pure le virtù del fischione ora, se vuoi. Io ti ho avvisato. Non ti voglio veder piangere sul sedile ribaltabile come una sudiciona, povera, con la cassa dotale di un porcellino da rompere.

 


Testo di Marco Simonelli

 

 

MEDUSE

 

[LEI guarda un punto fisso di un orrizonte violaceo. LUI osserva irrimediabilmente il rosso del sangue che scivola sulle proprie dita]

 

LEI: la fortezza tua maschia assedierò lungamente con le mie mani bagnate di farina impercettibile, con tutto il bianco che in me impera di pelle; con tutte le armonie che disseminano sequenziali e insoddisfatte le meningi cardiache io avvallerò l’ipotesi di un connubio imperatore che determinerà le sorti di entrambi. Cellularità nell’aria: fattezze incrociate, amorevole volontà a piegarti nell’ingresso: per un incongruo connubio di masse muscolari opererò il miracolo, in un assolato pomeriggio di nevischio breve. Poni nell’alveo del ventre ciò che ti giace ammutolito dentro gli occhi: io apro la mano: posa pure qui ogni improvviso smarrimento.

 

LUI:  Negazione della carne il tuo mattone, negazione del refrigerio del sonno, negazione stessa del sogno quando tu chiudesti improvvisamente le fonde condutture che scioglievi in miracoli liquidi per fare assenze e oscuramento, quel giorno che le mie ossa in grotta si frantumarono calcaree nella corrente di te; nel mio marasma ci fu la melanconia noiosa di un tiritera arroventata, vi fu lo squallore dell’essermi un granitico groviglio di ghiaia. Tu che lasci insoluto lo stupore, tu crei i sassi dietro le tue spalle, io sono sale al sole, tu mi hai ucciso con l’assenza risoluta della divinazione e non vi sono più armature a tenermi: cogli adesso del rosso il sangue vivo, la mia pelle adesso strofina la terra più profonda: è inverminita stoffa.

 

LEI: Per te non v’era più spazio: lo spazio stesso si dischiudeva per me a ben altre aurore di tungsteno: vi brillava la seta smagliante di altri ginocchi! perle il sudore cangiante che stillava dall’arcobaleno delle sue ascelle! Molti moti ondosi, marosi in dissolvenza e poi altro non so dire. Ma partire non è dolore e raccapriccio! In altri luoghi non vedrai più le radiose stille che ruscellano alla percezione di altre pupille! Era migrare una dissoluzione doverosa. Era cosa giusta e buona affogarti al porto dove non hai mai attraccato.

 

LUI: Tu nella falla ammorbata che hai inciso in centimetri di paura lungo le mie braccia che non più ti stringono, tu hai versato l’acidità di invisibili inchiostri. Sei del sangue il solito tormento e nella sagrestia scavata del torace oramai nessun dio spezza più il suo sangue di corpo. Cammino sul torpore della mattonelle, l’acqua sporca, i piatti incrostati di pasti non buoni. Tu nel vino che insanguina il bicchiere, leggo il tuo profilo nelle chiavi della porta, nel cirro che squarta l’azzurro, il tuo riflesso mi insegue in tutte le ombre che avverto, seduto platealmente solo, dalla parte sbagliata di questo bistrot. Ognidove, dovunque, per tutta la terra intera che si dipinge vagamente sotto i miei piedi, nelle dita che uso per un appannaggio quotidiano, nello scavarsi incidente di tutte le mie ossa e per ogni altro luogo ancora il tempo è infestato da te.

 

ALTRA VOCE (parla il silenzio medesimo) Su tutta la terra aleggia (discontinua) un’impossibile contaminazione di comunioni temporali: così si vuole che mentre un’aurora abbracci la terra, questa stessa terra sia polarmente e complementariamente baciata da continui crepuscoli.

 

ALTRE VOCI: (a turno ripetono ipnotiche frasi isolate mentre il loro sangue si illumina lentamente d’inquietudine) “Un bacio prima di morire”, “Sei perfetto sulla mia pelle”, “Perfavore, cinque minuti prima del mio ultimo desiderio”, “Come se gli occhi non volessero chioudersi mai ”, “Se queste fossero le ultime cose che mi fossero concesse di ricordare”, “Gli angeli neri chiamano il mio nome”, “Insieme forever come se prima nulla fosse esistito, perfetti ci lanciamo in un abisso infinito”