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segue da Cultura e Colori


Questo favoloso cantore è estraneo al risorgimento dei mortali, così come alle loro illusioni, guarda in modo distaccato, come se non fosse cosa sua, a quel gioioso risveglio della vita e vede ciò che gli altri mortali, tutti presi dalle loro illusioni, non riescono a vedere, ossia la delusione che seguirà inevitabilmente alle loro speranze, e la vera meta che tutti gli esseri pur inconsapevolmente, si affrettano a raggiungere: la morte.

Insomma nel Gallo silvestre, come ha notato il Fubini, «il Leopardi ha rappresentato, sotto parvenze fantastiche, se stesso, o meglio, quel se stesso, che staccato, per opera della meditazione, dalla vita dei suoi simili, a quella vita guardava tra meravigliato e smarrito».

Il gallo dunque, così come ad esempio l’Anima, nel Dialogo della natura e di un’Anima, come Malambruno, Filippo Ottonieri, Tasso, Stratone di Lampsaco, Colombo, Eleandro, Porfirio e Tristano, è una maschera del Leopardi stesso che ormai, in questa fase della sua esistenza, vede in modo straniato la realtà umana.

In questa operetta non si avvertono solo certi toni della Bibbia e della tradizione cabalistica (dottrina mistica che spiega magicamente il mondo e le sue origini), conosciuta dal Leopardi e meditata fin dalla primissima infanzia, ma irrisa nel Saggio sopra gli errori popolari, bensì c’è anche l’eco di testi più vicini al Leopardi, soprattutto i Canti di Ossian, tanto presente nei vari stadi della sua poesia, perfino nei canti pisano-recanatesi, e le Ultime lettere di Jacopo Ortis, il libro più drammatico-pessimistico del Foscolo, di cui specialmente il finale dell’operetta rivela riprese non soltanto letterarie, ma anche spirituali.

L’operetta, dopo il breve preambolo, si apre con il canto, solenne e spaventoso, scandito da voci cupe e da verbi significanti il ritorno all’esistenza, del gallo che richiama gli uomini al risveglio dal sonno.

Il momento del risveglio è pieno di speranze, c’è il desiderio di realizzare le “aspettative gioconde” e i “pensieri dolci”. Il sonno è qualcosa di dolcissimo, porta con sé illusioni e speranze, ma la ripresa di coscienza torna a ribadire l’infelicità umana e conduce l’uomo a sentire di più la miseria e “la soma della vita”:

 

[…] a tutti il risveglio è danno. Il misero non è prima desto, che egli ritorna nelle mani dell’infelicità sua.

 

Al risveglio dunque, tutte le illusioni che rendono più piacevole la vita, cadono.

Nell’operetta e in vari passi dello Zibaldone, Leopardi parla della necessità del sonno, in quanto ristoro, seppur breve, e interruzione:

 

Gran magistero della natura fu quello di interrompere, per modo di dire, la vita col sonno. Questa interruzione è quasi una rinnovazione, e il risvegliarsi come un rinascimento…E lo staccare una giornata dall’altra è un sommo rimedio contro la monotonia dell’esistenza. (Zibaldone 193-194, 31  luglio 1820).

 

 

Nello Zibaldone 290 del 21 ottobre 1820 dice:

 

Ora il sonno non è il fine della vita, ma certo un interrompimento e quasi un’immagine di esso fine

 

Non solo il risveglio è il momento più sopportabile e più ricco di speranze, ma anche i momenti che precedono immediatamente l’addormentarsi sono dilettevoli, così come, sulla base di questa analogia, lo sono quelli che precedono la morte, infatti la morte porta all’uomo e a qualunque essere animato un certo conforto e piacere (teoria del piacere).

Il sonno è una parvenza della morte, è «ristorarsi con un gusto e quasi una particella di morte».

Il Binni non accetta le conclusioni del Gentile sul ritmo delle operette che, dopo due momenti negativi, culminerebbero in una ricostruzione positiva, con un recupero della speranza e un riavvicinamento alla vita (il Cantico farebbe parte di questo terzo momento).

Al contrario il Binni ritiene che anche questa operetta rappresenta la negazione della felicità, che si estende categoricamente non all’uomo soltanto, ma all’universo intero, coinvolto in una generale caducità:

 

[…] le operette del ‘24 sono tutte fortemente inclinate in questa direzione di negatività, coerenti nella diagnosi della vanità e dell’infelicità dell’esistenza, che nel “Cantico” viene accentuato in forme volutamente profetiche da una voce non umana, solenne e superiore.

 

Il gallo continua il suo canto in questa rappresentazione di verità negative ed innalza una domanda, attraverso immagini molto poetiche, tra le più liriche del Cantico, domanda che quelle creature, illuse dal miraggio di una loro possibile felicità, mai o assai di rado rivolgono a se stesse:

 

Se sotto l’astro diurno, languendo per la terra in profondissima quiete tutti i viventi […]

 

Ossia, se anche il sonno dei mortali fosse perpetuo e tutta la vita fosse spenta, senza più movimento né suoni, l’universo certamente sarebbe utile, ma non ci sarebbe «copia minore di felicità».

E’ lo stesso motivo della Vita solitaria (vv. 23-38) ripreso con una intonazione più grandiosa: si tratta non più del breve silenzio del meriggio (“altissima quiete”) e del momentaneo assopimento della vita, ma di un silenzio senza fine e della totale estinzione della vita. Qui, in questo passo del Cantico del gallo silvestre, così come nei versi precedentemente citati della Vita solitaria e ne L’infinito, di cui il Cantico reca con sé delle indiscutibili reminiscenze (basti pensare ai “sovrumani silenzi”, alla “profondissima quiete”, identica nel Cantico, e all’ “infinito silenzio”), abbiamo una serie di immagini e di fenomeni presentati nel loro non-essere.

La lunga apostrofe al sole «autore del giorno e preside della vigilia» si svolge attraverso una sequenza di domande che ammettono soltanto una risposta negativa:

 

 […] vedesti mai la felicità dentro ai confini del mondo?

 

L’infelicità è permanente, nessuna creatura, né animale né vegetale, partecipa della felicità. Questa domanda del gallo al sole, col riconoscimento sottinteso dell’infelicità cosmica, sarà ripresa nella domanda senza risposta del pastore alla luna nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, sul mistero dell’Universo:

 

 se la vita è sventura,

 perché da noi si dura? (vv 55-56).

 

Il Fubini però ritiene che tra il Canto notturno e il Cantico ci sia una distanza:

 

l’una tutta pervasa dal senso di solitudine notturna e dall’affetto di una creatura solitaria per la campagna della sua solitudine, l’altra, ben costruita sì  e non priva di note poetiche, ma pur nella sua enfasi troppo povera di sentimento.

 

Qui si può sentire anche l’eco dei Canti di Ossian con la pressione dolorosa e angosciosa delle domande senza risposta che l’uomo rivolge al sole e alle stelle,  coinvolgendo tutta la natura e gli esseri animati nella sorte di dolore e caducità dell’uomo.

Lo scopo ultimo della vita è la morte e la vita non è altro che l’attesa della morte. Nell’impossibilità della felicità tutti gli esseri viventi si adoperano, senza rendersene conto, al raggiungimento non della felicità, pur proponendosi questo fine in ogni loro opera, ma della morte, unico e vero intento della natura.


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