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Equinozi d'Inverno

a cura di Carmen Garofalo




L'autrice Carmen Garofalo ci trasporta nella morbidezza crepitante dello sfavillare interiore che riluce della sua sapiente mano delicata. Le narrazioni, opere, da lei proposte, stendono una chiosa di seta finissima sull'esistere, ove dettagli anche minimi si imprimono del sapore pregiato di un derma percettivo e bagnato da un vento creativo in scarto continuo e totale. Ci accingiamo a penetrare il suo cosmo finissimo con le punte in raso di modeste ballerine che soltanto vorrebbero riuscire anche solo ad udire un'eco dei magnifici sensi charme e arcobaleno che Carmen distende sulle nostre menti. Ed è come se palpassimo fibre speziate dall'aroma di un sentire, indagato impetosamente fino al suo ganglio nucleico più profondo. SDS



La sua bambina. Cristina

 

Irene stava seduta. Non diceva una parola.

La finestra era spalancata e il lieve soffio del vento tormentava i suoi capelli.

Aveva una fotografia tra le mani e la stringeva con forza, ad occhi chiusi.

Le labbra le tremavano come se sentissero freddo, come se avessero paura, come se temessero.

Cosa? Forse le urla dei bambini provenienti dal cortile.

Oppure le grida del suo cuore, vecchio e stanco di ricordare.

Urla o grida. Che differenza c’è?

Amore o dolore. Che differenza c’è?

Bambini che corrono, bambini che giocano, bambini che piangono, bambini che ti abbracciano con il solo sguardo.

Bambini che assomigliano al vento, quando scuote il giorno.

Bambini che assomigliano alla pioggia, quando ingombra gli spazi.

Bambini che assomigliano ad un segreto, quando incalza e incuriosisce la vita.

Bambini che assomigliano a bambini.

Che differenza c’è?

Irene accarezza quelle voci, quelle grida, quelle urla.

La sua bambina. Cristina.

Le dita penetrano nella carta della foto con la stessa forza con cui un ricordo trafigge la mente.

No. Non è un ricordo.

E’ qualcosa di più. Di più vivo, di più presente.

I bambini smettono di urlare, forse hanno deciso di fare il gioco del silenzio.

Irene sorride. Restando ferma, con gli occhi chiusi.

Restando assorta.

Ama il silenzio e ciò che partorisce. Pensieri, ricordi, momenti.

Odia il silenzio e ciò che abortisce. Pensieri, ricordi, momenti.

Amore e odio. Che differenza c’è?

Si alza dalla sedia. Ha sete. Un succo di frutta forse può aiutarla a rinfrescarsi un po’, a rinfrescare quella bocca secca e inaridita da terribili ore di attesa.

Aspettare. Che un telefono squilli. Che il campanello della porta suoni. Che un mezzobusto dia finalmente la notizia sperata.

Aspettare. Che una fotografia non si trasformi in una reliquia, ma diventi solo un simbolo di quello che esiste davvero. Di quello che vive nella realtà.

La sua bambina. Cristina.

Irene sorride di nuovo. Il vetro della finestra riflette il suo viso. Pallido e smunto, come l’attesa.

Guarda la fossetta sul mento. La sua, come quella della sua bambina.

“ Mamma perché abbiamo lo stesso buchetto più giù della bocca?” – le disse un giorno mentre le stava pettinando i lunghi capelli  davanti allo specchio.

“ Perché prima di te ci sono io, e tu sei nata da me. Quindi ciò che sei tu sono io” – le rispose Irene.

La vide aggrottare la fronte e allungare il muso. Non le era piaciuta la sua risposta.

E forse, non l’aveva capita. Aveva solo cinque anni.

Ciò che sei tu sono io.

Che differenza c’è?

Il rumore delle chiavi che girano nella toppa la fa trasalire. Suo marito Giorgio.

La guarda e abbassa gli occhi.

E’ da un po’ di tempo che non la vede uscire, cucinare,fare i lavori di casa.

E’ da un po’ di tempo che non si parlano quasi più.

Irene e Giorgio. Senza Cristina.

Non esistono più.

Un figlio lega e strappa. Un figlio riempie e svuota.

Un figlio dona la vita e uccide.

La loro bambina. Cristina.

Quanti anni avrebbe oggi? Venti.

Come sarebbe? Bella.

Giorgio si toglie il cappotto, si avvicina a lei e le dà un bacio sulla guancia.

Come sempre.

La cena non è pronta, i panni non sono stirati, né lavati. La casa non è pulita.

Come sempre. Da quando Cristina non c’è più.

Da quando quell’attesa, nitida e arida, si è  trasformata in verità agghiacciante.

La sua bambina. Cristina.

Un mostro l’ha toccata. Un mostro l’ha derubata. Un mostro l’ha derisa. Un mostro l’ha uccisa.

La sua bambina. Cristina.

Un uomo l’ha trasformata. Un uomo l’ha venduta. Un uomo l’ha picchiata. Un uomo l’ha uccisa.

Quanti anni avrebbe oggi? Venti.

Come sarebbe? Bella.

Il cielo diventa buio e le luci di strada iniziano a scrutare ogni angolo del mondo.

Irene è ancora alla finestra, Giorgio si è chiuso in camera sua.

“ Mamma domani andiamo fuori?” – le disse quel giorno Cristina.

“ Certo amore, se non farà freddo, altrimenti poi ti ammali” – le rispose Irene.

Una linea spezzata si disegna in cielo. Un fulmine. Poi un tuono. E un altro ancora.

Un giro sullo scivolo. Poi uno sull’altalena. E un altro ancora.

Una linea spezzata si disegnò in cielo.

Cristina non c’era più. Il prato verde divenne cenere sotto le scarpe di chi lo calpestò.

Gli alberi divennero presenze complici e inoffensive davanti agli sguardi di tutti.

Cercarono, cercarono, cercarono.

L’attesa divenne la crudele compagna di una partita interminabile, fino a quando decise di non stare più al gioco.

E fece scacco matto.

La trovarono. Una scarpetta. Un vestito stracciato.

La sua bambina. Cristina.

“ Mamma guarda come sono brava mamma!”

La pioggia comincia a scendere senza lasciare traccia sui vetri. E’ troppo fine, troppo lenta, troppo debole.

Giorgio esce dalla stanza e apre il frigorifero.

“ Faccio una frittata?” – le dice.

Irene annuisce.

Così come fece quel giorno, su quel prato verde.

“ Signora la guardi…è lei?” – le disse il commissario.

Annuì. Non parlò. La voce si spense con il respiro della sua bambina.

Ciò che sei tu sono io.

 Poggia la testa sul vetro. Il rumore dei fornelli la infastidisce. L’olio che frigge sembra il rumore di una pioggia che non esiste, che non ha voce.

Come lei. Come la sua bambina. Cristina.

Ciò che sei tu sono io.

Posa le labbra sul vetro, come se quella trasparenza fosse il viso di sua figlia.

Trasparente come il cielo. Come la verità. Come l’innocenza di un bambino.

I bambini assomigliano a un ruscello sotto la roccia. Sorprendono quando meno te lo aspetti.

I bambini assomigliano ai colori dell’arcobaleno.

Uguali ma diversi, sicuri di trovare sempre il modo  per mostrarsi vivaci, anche nelle giornate più nere.

I bambini sono come la musica. Non finiresti mai di ascoltarli.

Irene stacca il viso dal vetro e si siede a tavola.

La frittata è pronta. Suo marito gliene mette una fetta nel piatto.

Lei prende il coltello e la divide in due.

Una per lei, l’altra per la sua bambina. Cristina.

Mangia senza far rumore. Mangia senza parlare.

Giorgio fa la stessa cosa.

Ciò che sei tu sono io.

La metà della fetta rimane nel piatto. Irene si alza, dà un bacio a suo marito e si rifugia in camera sua.

Giorgio continua a mangiare.

Come sempre. Da quando Cristina non c’è più.

I bambini assomigliano ad un ricordo.

Non possiamo dimenticarli e non possiamo ignorarli.

Perché ciò che sono loro, purtroppo, noi non lo siamo più.

                                                                                                                                                   C.G.

 


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