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Coni di luce: gemme sul palco





(Il Palco di questa rubrica è l’immaginario Altrove ove si dipanano proteiformi, cangianti, impalpabili narrazioni visive). SDS.


 

MORIR DI FAMA (DVD)

Regia di Alessandro Riccio

Alessandro Riccio è il Re Sole

Enzo Lenzetti è Pierre-Paul Riquet
ideatore e costruttore del Canal Du Midi

 

Morir di Fama (DVD): Nota Critica



In un insolito collage di sei episodi Riccio esprime un’agile ed elastica duttilità emotiva da un lato, nell’indagine sempre a più livelli dei protagonisti, e visiva dall’altro, nelle versatili note paesaggistiche.

La storia si apre e si chiude con i due personaggi più noti, Colombo e Van Gogh miscela entrambi delle sinistre e serpentine ambivalenze sinestetiche di ogni vicenda.

Nel Primo episodio l’incipit ci conduce immediatamente in medias res, nella situazione topica di richiesta e diniego.

E queste ultime due, la richiesta e il diniego, appunto, vengono sapientemente distinte come in una partitura da Riccio, la prima come una scena di un coro silente dal quale spiccano solo i grandi occhi espressivi di Colombo – dunque risalta un piano eminentemente visivo – la seconda (il diniego), squarcia le monadi statiche d’aria e foschia, con uno scatto e vibra di una folta fascina di insistite, smodate, fragorose risa – dunque si ha il passaggio ad un livello precipuamente auditivo. Entrambe queste coloriture sono a mio avviso di forte e sensibile connotazione.

Al suddetto tourbillon segue la disperante rinuncia del protagonista che si limita a voltare le spalle (ove un gesto risuona più secco e violento di mille schiamazzi, sembra dire Riccio) e l’affollarsi dei seguaci-servi del potere senza nome né personalità.

Questo schema di massima denoterà lo scheletro e l’impianto anche dei susseguenti episodi.

La comicità può trovarsi, a mio avviso, nella levità con cui ci viene mostrata l’apparente ingenuità e buona fede dei protagonisti non riconosciuti, freschezza di creature “altre” destinate a non far breccia nell’ordine costituito frutto della “Norma” o di sovrastrutture dogmatiche e dunque assolute; e nelle situazioni paradossali ove l’ieraticità dei grandi si sfalda come biacca per un nonnulla.

Ed il movimento globulare ad anelli concatenati e veloci delle sequenze, non permette di soffermarci troppo, volutamente, sulla contropartita tragica e amara di questi vissuti.

Ma dopo questa breve scorsa, ritorniamo al primo episodio (quello di Colombo).

Negli attimi iniziali del video si dà un nero schermo in cui incalzanti si snodano alcune scritte e battono sincopate percussioni di pressata inquietudine.

Generosi primi piani e pochissimi movimenti muscolari degli astanti se eccettuiamo il concerto di sguardi.

Siamo in un interno ove la luce naturale si irradia obliqua dalla parte opposta a Colombo ( egli è infatti figuratamene e non solo, in ombra) ed avvolge seppur di gusto crepuscolare gli atomi nebbiosi sul re.

La risata del sire si accompagna al risveglio della sua medesima movenza concitata, dalla quale è come “attivato”, e tutti i presenti, da statici, assumono una, pur breve, dinamicità.

Dal primo al secondo episodio troviamo un imprevisto di garbato e modellato stacco: un’ intensa musica con il titolo che seduce a tutto schermo, poi una trama filigranata di cartografie, monete e suppellettili storici in susseguirsi sullo sfondo con i nomi dei creatori dell’opera in rilievo.

Il secondo episodio collocato tra Versailles e Tolosa nel 1661, vede un pungente e impertinente Carocci introdurre ad udienza del Re Sole lo sventurato Riquet.

Questo microcosmo è uno sfavillare di luce cristallina dalla tappezzeria rosso denso e dagli intarsi oro negli arredi.

Di nuovo la destrezza penetrante di Riccio divarica con decisione l’atteggiamento e la postura umile e richiedente benché a ben guardare, anche salda in sé del suddito, fiero di una personalità indivisa anche se non apprezzata, con la ieraticità del Potere che non è mai plastico ma la contrario rigidamente imprigionato da una resina a collante.

Lo scambio è di nuovo fra le cornee duttili di Riquet ed il viso scolpito, senza reazione che non sia attentamente calibrata, del Re Sole.

Molto d’impatto l’incontro visivo e parlato di Riccio – Riquet mediato dalla custodia dell’ordine sostenuta da un ambiguo Carotti.

Forte l’ossatura della presa di turnazione flemmatica di re Sole sull’esitare dell’interlocutore.

Riccio, non distogliendosi dal dessert che tiene tra le mani, modula in una trazione di spirale dolcemente elettrica le guance, e scandisce come gemme le parole imprimendo infine ai muscoli del suo viso un’intonazione delicatissima, sprezzante e vitalistica insieme (a mio avviso notevole).

Il nodo invalicabile tra le gerarchie è tutto nella serenità venata di lieve disgusto del grande Re Sole.

Un’intima, familiare, quanto topica situazione in interno propone Pierre Riquet nel privato del suo domestico con accanto una moglie concreta e “consapevole” ma non aderente appieno al tormento del marito.

Ottima l’interpretazione e la credibilità dell’attore- Riquet che ci rende vivo l’affanno incoercibile da lui palpato (molto più manierata la moglie).

La luce di un altalenante, surreale situazione metereopatica, incornicia l’inaugurazione del canale opera dell’ormai defunto Riquet, come vanto dalle ricolme labbra di Carotti.

Riccio assiste su una barca all’annuncio ufficiale, tramato in palpi di una socialità che gli si dà intimamente indifferente, senza scosse di energia.

L’ilarità sobbalza dal tuono come impartito dal defunto sul primo piano di Carotti sapientemente preso dall’alto ed è altresì sottolineata da una divertente contrattura facciale del Re Sole, con lieve, attenzione, lieve, torsione del busto del medesimo, nell’atto di osservare anch’egli, la singolare meteorologia.

Il terzo episodio, uno dei più brevi, datato Venezia 1609, tratta di un fugace e irriverente abboccamento tra Galilei ed un giovane discente.

L’inconsapevole frivolezza del ragazzo dà modo a Riccio di inquadrare un altro aspetto interiore  dell’incomprensione sulla terra per chi la subisce, ed è il conflitto, la glaciale, incandescente rabbia. Galilei non può non sentirsi e non agire scattoso, nell’atto violento, seppur non totale, di autocontrollo su se stesso.

Ed è proprio la querelle con un fanciullo ricco di energia freudianamente “non legata” e dunque scintillante, senza inibizioni, che smuove il dolore di “colui che sa”, in un’inevitabile frizione rispetto al resto.

Riccio ci regala, seppure una luce non piena, un bellissimo contrasto tra il cielo screziato che si inonda di lattee nubi sullo sfondo e l’ombra pesantemente materica (ed esistenziale) di Galilei in primo piano.

Il quarto episodio Parigi 1924, riprende George Melies in una serra imbiancata e destabilizzante, surreale, ove scorrono passanti veloci.

Questi mascheratosi dell’entusiasmo di un qualunque venditore, trasporto interno, di disperata matrice, espone oggetti della sua arte come in un inevitabile cupio dissolvi ove oramai non può che trovarsi spaesato e molto lontano dal suo personalissimo tempo alla Bergson. E questa dimensione altra è quella di un unico reduce, infitto e pervicace anche sulle sabbie mobili di un aspro presente.

E’ dunque un altro se stesso, vivo nella genialità del tentativo di adattamento, forte nella pazienza con gli improbabili clienti perditempo (e di nuovo questi ultimi sono stendardi dell’altra realtà, la fallace Vincita del senso comune sullo scarto dalla norma).

Dopo la scoppiettante sfilata degli sconcertati non-compartaori (composta e deliziosa la Ciofini) un cambio di luce rosata su tutto lo schermo fa da tramite per un tramonto di quiete, sospensione e sentimenti pregiati. E fonde finalmente l’unico scambio di due anime incorrotte anche se forse separate da un vetro eperienziale e formativo (artista lui, fioraia lei). Le espressioni frizzanti e soddisfatte  dei due “dopo la magia” ci riconducono, tramite la grazia degli attori e la finezza del regista, ad un mondo di piccoli, preziosi gesti.

Quinto episodio: tra Parigi e Mantova, 1603.

Nell’episodio su Isabella Andreini, l’incuria e la distanza fra globi formali (il potere) e più profondi (l’arte, ad esempio), si fa lucida e particolarmente insistita.

L’attrice è costretta a rendersi creta più duttile, umanizzata, seppure densa di costituenti “altri”.

E la campagna ove per ventura si ferma, la mette a contatto, nel viso, nei movimenti etc.. con un sé corporeo ma realistico dal quale non può prescindere.

La fallacia della fama che è tale non come dote intrinseca, bensì come elemento di dipendenza totalmente esogeno, rivela qui la sua intera fragilità.

(Se nessuno sa, fuori dalla tua cerchia, “chi” ritieni di essere, un attore o quant’altro e drammaticamente, pare in superficie che tu non esista, ma preziosamente invece, nella sostanza autentica, sei quell’unico sé di cui ciascuno è portatore; ma da un tale, liminare confronto specchiante, la protagonista si sottrae rimanendo aggregata e sicura dietro il suo strato di piume e ciprie come maschere sulla polpa dell’io).

L’irriverenza del contadino che non possiede strumenti valutativi consoni  allo spettacolo teatrale di Isabella, fa esplodere la frizzantissima e godibile reazione nervosa di lei: versatile ma molto scandita quasi in micro fermo-immagine sui passaggi tonali del volto.

Sesto episodio: Arles 1889.

Inquadratura policroma e molteplici particolari  sull’interno della stanza di Van Gogh, preso questi, di spalle.

Forse a chiudere, con una bella pennellata di Riccio, proprio con questa posa del corpo premuta come in un autocircolo, l’impossibilità, postulata dal video, di “uscire” dall’universo dato se non attraverso arcobaleni estranei all’anestesia emotiva generale dei tempi.

Ed il sorriso di Van Gogh chiosa di dolcezza la secca violenza dell’humus circostante che egli con quell’atto trascende.

SDS.

 

Per approfondimenti su “Morir di Fama” e sugli altri lavori della:

 Casa di Produzione Tedavì 98

consultare: www.mesemediceo.it


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