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Musica

a cura di Giacomo Marconi




Marconi, un profondo ed ineguagliabile sapiente della musica, in tutta la vastità che ne esiste. Il suono scelto da Giacomo sovente si dirama, nei suoi duttili, enigmatici labirinti. E l’auctor resta dunque nel novero delle ipotesi, del confronto, del dibattito cercato, della domanda priva di dogmatica risposta.

Ardesia, un sottobosco di frutti arcani, il concerto risuona volutamente nella profonda cassa di risonanza che Marconi  costringe il lettore a sentirsi dentro. La sua è senza requie un’indagine midollare, capillare, cardiaca delle opere prese in esame. Si cercano i punti dove il suono batte impietoso. Il retroterra di edotta cultura sugli spazi aperti del ritmo e  delle collane di note, permettono a questo autore, disamine originali; e nel grembo del suo genio egli lascia intravedere il suo privatissimo, insolito, atipico  gusto, tra l’ambra e le resine occulte che agglomerano e talvolta livellano i prodotti musicali. La caratteristica di questa rubrica è la passione, come se si cercasse sempre e solo, la parte profonda del respiro.

Non esiste un non detto, il contraddittorio appare cercato, desiderato, per imprimere ancora altra vita alle fibre di luce che Marconi distende, sul derma della musica, per lui, sempre vibrante. SDS.

 

 

1. Nel calderone della musica mondiale è tornata alla ribalta la nuova new-wave o pop-rock  che dir si voglia (talvolta con venature elettriche tal'altra con attitudini garage o post-punk). I nomi? Negli ultimi 2-3 anni c'è stata una vera e propria invasione: Interpol, Kaiser Chiefs, The Music, Bloc Party, The Bravery, Franz Ferdinand, Kills, The Killers, The Client, Libertines e Babyshambles, Arctic Monkeys, Arab Strap, Art Brut, We Are Scientists, Hellacopters… e molti, molti altri. Difficile anche tenere il conto e, talvolta, distinguere tra questi e quelli, anche. E questo nonostante fra diversi di questi gruppi ci sia sincera antipatia reciproca; o risentimento per essere accostati l’un l’altro. Quanti di questi gruppi sopravviveranno al giudizio, non dico degli anni, ma dei mesi? Ma non è di questo che volevo parlare. Quello che è interessante è non tanto dire o capire cos’è questa pacifica invasione musicale (basta leggere di musica e di analisi del fenomeno se ne trovano a bizzeffe) ma chiedersi il perché, il com’è possibile. Sì, perché, come evidente, si tratta di tutta musica con matrice anglosassone, pur se non tutta prodotta in Inghilterra o negli Stati Uniti: dunque di "colonizzazione" di fatto si tratta. Qual’è mercato di quest’offerta? E dov’è? Ebbene, il mercato è praticamente il mondo intero! Questo solamente può permettere una produzione così copiosa. E allora viene spontaneo chiedersi come ci può essere tanta "creazione musicale giovanile" fuori dall’Italia (questa è solo l’ennesima manifestazione di un fenomeno che si ripete ciclicamente…) quando qui da noi le cose sono così asfittiche e i nuovi gruppi hanno spesso una vita molto difficile, riuscendo a sopravvivere più grazie a fortuna (o tenacia) che non a doti artistiche. Inoltre, ma non è un fatto scollegato a quanto appena detto, qua da noi la distribuzione fa acqua da tutte le parti e chi si interessa (davvero) di musica (ancorché leggera) o ha il proprio “pusher” di fiducia o si deve arrabattare con Internet in qualche modo. O, ancora, si accontenta dei “soliti” prodotti del mercato da alta classifica pompati da radio e tv, sempre quelli, non si scappa. Certo i prezzi alti, sì. Un bel problema. Ma i prezzi sono alti anche fuori Italia.

Il fatto è che la musica è un prodotto che è stato troppo maltrattato, qui da noi. (L’ultimo Sanremo ne è solo la peggiore riprova). Come tante altre cose, del resto: i libri, per esempio, e l’arte in generale. Tanti sono i motivi di questo fatto. Per esempio alcuni sono da ricercare nella scuola, che non insegna e che non piace. (Bella davvero, in tal senso, la riforma morattiana: l’ennesima grucciata allo zoppo!) Con diversa prospettiva si possono cercare le cause nel nostro innegabile provincialismo, che fa dell’Italia un posto “lungo e stretto pieno di regioni” e di campanili e che non ci ha mai permesso, storia alla mano, di avere fenomeni di dimensioni tali da poter organizzare, per grandezza e sufficiente periodo di tempo, progetti “nazionali” paragonabili a quelli di altre nazioni. Si potrebbe altrimenti dare la “colpa” alla mancanza di materie prime, che ci fa dipendere in tantissime cose da altre nazioni. O, ancora, alla nostra classe dirigente e al nostro “finto” e assistito capitalismo, ma anche alla nostra borghesiuccia: cioè in sostanza a tutti noi. Insomma, queste cause che si mischiano fra loro diventando talvolta esse stesse effetti, hanno effetti profondi sulla nostra vita sociale e, conseguentemente, influenzano l’arte e la cultura e i loro prodotti e sottoprodotti, di cui la musica leggera fa parte. Certo il mio è un discorso superficiale e non ben argomentato. Ma non è nelle corde di questa rubrica, né nelle mie, approfondire questi argomenti. Cosa per fare la quale sarebbe necessario scrivere libri interi. O forse leggerli! Comunque sia, non sto dicendo qua niente di nuovo; è solo un piccolo sfogo rabbioso dovuto al vedere quanto lunghe siano le mani della “storia” sugli eventi quotidiani che ci toccano in sorte ogni giorno.

Benedetto sia l’avvento di Internet, che ci permette (e ci permetterà sempre più) di superare alcuni di questi limiti, non avendo necessità di passaporto il navigatore della tripla w. Il lato triste della cosa è che questo mezzo non ci permetta di risolvere altri, ben più pesanti, problemi, che non quelli legati alla possibilità di condividere immagini suoni e idee. Ma dobbiamo saperci anche accontentare…

E poi l’uomonuovo, che da una lontana provincia di una remota regione del mondo può raggiungerne una altrettanto remota e interagire a distanza alla velocità della luce con un altro uomonuovo, riuscirà forse ad esser vicino pur restando distante; a colloquiare con una lingua universale, pur continuando a parlare a casa sua nel proprio dialetto; ad “acculturarsi” (il che significa “liberarsi”) pur sotto un regime o sotto le bombe dell’ennesima guerra santa o giusta; a scambiare emozioni ed esperienze (cioè a fare “arte”) senza troppe mediazioni, conoscendo il “diverso” direttamente, senza i racconti della televisione, senza la mediazione di chi ci dice di quanto è feroce il ferocissimo Saladino o quanto li turchi facciano paura… Insomma, tutto questo sembra avere poco a che vedere con la nostra musica pop-rock leggera... Ma è anche nella qualità dell’arte, in quella della creatività, la possibile chiave per uscire dal cul-de-sac nel quale ci troviamo. E forse potremo dire di esserne usciti solo quando un uomonuovo riuscirà, da distanze siderali, a volere, a cercare, a sentire e infine a trovare una musica - pur leggera - che sia stata pensata e suonata nel nostro paese (ma non come reperto folcloristico o come qualcosa in via d’estinzione, perché quello è grosso modo il punto nel quale, purtroppo, ci troviamo adesso).

 

 

2. Sono tornati "fra noi" in questi giorni i Baustelle e Marco Panattoni, di cui avevamo già detto nei precedenti numeri, con la promessa di "seguirli" nel loro percorso artistico. In realtà dei Baustelle c'è da dir ben poco, nel senso che ormai son diventati famosetti e, affacciati al panorama italiano e distribuiti da una major sono stati sentiti e passati sulle radio nonché recensiti a iosa. Dirò perciò solo due cose. uno: Fabrizio Massara, tastiere campionatori e molto altro, se n'è andato, non trovandosi più in linea con il resto del gruppo e, pur figurando ancora nel disco, la produzione e le sue idee, che aggiungevano un buon 40% alla "baustellianità", sono state molto limitate. Peccato!

due: Come dice Francesco Bianconi, la voce e leader del gruppo, il disco suona molto "meglio" dei precedenti, viste le risorse cui hanno potuto attingere nella realizzazione, ed è tecnicamente superiore come suoni ecc... tanto da disdegnare, nelle sue interviste, i lavori del passato (che non erano all'altezza, secondo lui). Per me il disco suona solo molto più radiofonico e, a parte 3, forse 4 pezzi, sembra molto più noioso e ripetitivo e anche le liriche mi appaiono meno suggestive e belle. E' diminuità la crteatività, i contrappunti, l'originalità che faceva gridare, nei primi due lavori, al miracolo. Chissà se questo significherà maggior successo. Quello che concedo loro è non aver cercato ossessivamente il successo con brani orecchiabili e da classifica. Ma così son rimasti in un limbo dove non paiono esser più né carne né pesce. Io, tenacemente e fiducioso (perché comunque si sente che di benzina creativa ce n'è ancora in serbo!), li attendo alla prossima prova. E attendo curioso anche il futuro musicale di Fab, anche se qua in italia è davvero difficile sfondare solo con la musica.

 

Di Panattoni invece da dire qualcosa ce l'ho. Lo avevo lasciato brillante e piacevole, ma un po' troppo poco originale e lo ritrovo su un disco che stavolta sa dove andare e cerca una sua via originale. Certo originale non lo è in assoluto, perché ci son echi di gruppi che hanno fatto del combat-folk-rock la loro casa. Ma lui va a cercare le radici, quasi casualmente e con molta umiltà, come si evince dalle note di copertina, non in europa (tipicamente irlanda e tradizioni celtiche) bensì in sudamerica, rileggendo, reinterpretando, italianizzando e trovando libera ispirazione nelle musiche, nei temi, nei personaggi che hanno fatto la storia e la musica dell'america del sud dell'appena trascorso secolo (o l'america tout-court, come dice lui che "dovrebbe essere da tutti inteso!"). I compagni d'avventura sono più o meno gli stessi del precedente disco, ma il nome cambia, adeguandosi al progetto: non più Marco Panattoni ma "Colectivo Panattoni" e si aggiunge al disco anche la partecipazione straordinaria, che si presume amichevole, di Francesco Guccini. Il disco suona bene, nonostante (?) la produzione non sia faraonica (si tratta infatti di una autoproduzione). Possiamo immaginare i temi e i suoni: però se lo facciamo restiamo alla fine un po' sorpresi (in senso positivo). Perché se i temi restano legati alla cultura e alle suggestioni sudamericane che possiamo pensare dagli Inti Illimani in poi, essi suonano italiani, straordinariamente italiani, anche quando si canta in spagnolo, E i suoni, pur a mio giudizio e gusto mancando di qualche tastiera "fuori contesto" che avrebbe reso il disco ancor più originale e sorprendente, sono suoni di oggi, meravigliosamente contemporanei e stupendamente suonati. I suoni sono anche quelli raccontati in "suoni", suoni d'una campagna garfagnina o lunigiana o giù di lì, con i maiali ai trogoli fabbriche rumorose a macchiare il silenzio delle colline tutt'attorno. In questi temi non si può non "sentire" Guccini. Ma non si tratta di lavoro di copiatura o di manierismo. Si tratta di carattere, e quello di Marco e sincero e naturale, come lo è quello di Francesco. Il quale ci offre una traduzione e una canzone cantata a metà con Marco che, e ci dispiace, è forse il capitolo meno convincente dell'intero disco; quella "Te recuerdo Amanda" di Victor Jara (unica cover dell'intero lavoro, tradotta dallo stesso Guccini) che abbiamo sentito in ben altre, le più diverse, interpretazioni. Ma la canzone è così dolce e triste che resta impossibile sciuparla. Il miglior episodio del disco a mio parere è la struggente e grintosa Iquique, preceduta da un preludio in forma di poesia di Luca Checchi, liberamente ispirata, come si legge nelle note di copertina, ai fatti accaduti  Iquique nell'allora Bolivia nel 1907. Ma, come tutte le valide canzoni che parlano di resistenza e di storia, la parabola della canzone, decontestualizzata dai fatti specifici, si fonde con le altre liriche e storie di resistenza e lotta narrate all'interno del disco, da Democrazia, ispirata ai fatti di Genova 2001 a Cemento e Lacrime, ispirata ad una canzone di Chico Buarque De Hollanda. E una menzione merita anche La Milonga, unica canzone interamente caantata in spagnolo, suggestionata dalla "Milonga mas triste" di Alfredo Zitarrosa. E poi tutte le altre, per arrivare alle dodici tracce che compongono gli oltre 50 minuti del disco. Certo con tutti questi padri putativi, esplicitamente dichiarati, il materiale "d'ispirazione" è di grande qualità e il rischio era che al Colectivo tutto questo materiale pesasse sulle spalle tanto da metterli KO. Invece la rielaborazione del tutto ha una sua innegabile validità e il risultato è affatto originale e io mi sento di dire, per quel che conta: OK, Marco e Co., scommessa vinta!

 

3. Grazie alla sensibilità musicale ed artistica della nostra direttrice, Simonetta Della Scala, che ce li ha segnalati e fatti notare, abbiamo sentito molto in questo periodo i lavori di Valentina Dorme, gruppo al momento sconosciuto al grande pubblico e non molto presente nei negozi di dischi, perlomeno dalle parti di Firenze; ma che meriterebbe ben altra notorietà e diffusione, per motivi che dovrebbero essere immediatamente comprensibili a chi ascolti le loro canzoni. Sospesi tra cantautorato, rock e intimismo (potremmo senza paura accostarli a gruppi come Baustelle o Virginiana Miller, pur essendo assolutamente differenti da questi e da quelli), tra citazioni di Carver e cover di Giorgio Gaber (la stupenda "Ora che non sono più innamorato" splendidamente ricantata e risuonata) sono un ascolto che consigliamo caldamente. Purtroppo della loro (auto)produzione si trova ben poco e l'unica è rivolgersi alla fosbury records (http://www.fosburyrecords.org/flash2/index2.html) o direttamente alla distribuzione, la audioglobe  (http://www.audioglobe.it). Consigliamo comunque di passare dal loro bel sito (http://www.valentinadorme.it) e dal loro blog (http://teatroleggero.splinder.com) per farsene una più personale idea. Comunque sia per conoscerli meglio proveremo a organizzare una loro "presentazione" sul prossimo numero di Porpore...

GM.


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