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Narrativa





(Da questo numero inauguriamo una sorta di ’alternanza’ di analisi su libri editi e lavori inediti, con ovvia predilezione per questi ultimi come da linea editoriale).

 

 

 

Lucia Etxebarria, Amore Prozac e altre curiosità, Bergamo, TEA, 2005.

 

Superficiale, di facile presa sul sensazionalismo erotico, uniforme e linguisticamente piatto.

Il testo della Etxebarria, contrariamente alle critiche largamente positive, mi lascia un manto trasparente di non letto, non vissuto, non partecipato.

Un ibrido quindi che può essere descritto solo a patire da ciò che “non è”: certamente non introspettivo, non di denuncia, non fotografico a presa del diretta sul reale perché ne risulterebbe sfocato e fuori centro, e neppure proprio della buona letteratura recente sull’eros (nonostante usitate e noiose descrizioni dell’intimità vaginale femminile) e non potrei neppure dire che esso sia una creatura nuova nel panorama scrittorio, perché tutte le sopracitate componenti lo delineano come un grossolano mosaico senza identità.

Le tematiche coinvolte sono molto intense ma toccate o con una voce epidermica o con un contatto all’apparenza violento e profondo ma a ben guardare non penetrato e fissato in fotogrammi dai colori accesi che tendono a volerci soltanto abbacinare.

La lingua, che io percepisco in traduzione, è un pastiche; vuol essere dialogo interiore, pensiero e si fonde con un parlato soluto, ma non realistico, un parlato letterariamente ricostruito.

Cerca di inondarsi di esuberanza ma alla fine risulta anestetica, piatta, ed il suo “slang” che dovrebbe renderci la movida dissoluta delle protagoniste, ricorda i turbamenti di una pruriginosa, educazione perbenista.

La trama esilissima e a singhiozzo vagisce indefinita nel caos.

I sentimenti, annunciati dal titolo, ma globalmente assenti sono manifesti spettri neanche evocati che restano in potenza quasi pronti ad uno scatto verso un Deserto dei Tartari che non accoglierà mai la loro pugna.

Ed è come se in un macinate liquido placentare di dinamismo postmoderno, pillole e genitalità vuota, particelle globulari di vita senza senso ne agognassero uno muovendosi vischiose in cerca di un essere dotato di anima.

Le tre sorelle non hanno personalità sufficientemente differenziate con colore, e vengono facilmente ridotte a cliché emotivi e somatici in totale conformismo agli standard in voga o a evidenti stereotipi anche nei pensieri o nei frigidi atti liberatori finali.

L’unica sabbia positiva che scende granulare sul lettore è la levità dell’autrice che riesce a far scorrere via le pagine, ma, aggiungo nuovamente, senza lasciare traccia significante.

Buono invece l’abbandono della strafottenza esibizionista di Cristina vicino al termine del libro, ove ella dice: “Multitossicomane […]Ho provato tutte le droghe disponibili e sono andata a letto con tutti gli uomini più o meno presentabili[…] Me la sono spassata, insomma. O forse è stato terribile” ove quest’ultimo lemma sibila, a mio parere, la cifra dell’intero romanzo. Ovvero la chiave può essere sì un primo livello in cui un’inebriante lucciola vaga tra gli zuccheri dei contesti sfasati e ne sembra attratta, ma in un secondo stadio-tunnel, il vortice della luce che si congiunge al buio nell’autodistruzione che induce all’incoscienza, rivela il baratro dalla falsa biacca di metresse del divertimento o del successo a tutti  i costi, rivela un mondo che apre arcani buchi neri dietro suadenti vetri a specchio. E l’atto tragico è che spesso non si sa, non si vede, non si percepisce il Confine da cui non vi è ritorno.

Ma di tutto questo, del pallore del nulla, della violenza intrinseca nello sbandamento, nel volersi “perdere”, il testo non dispone di strumenti adeguati per occuparsene.

La tematica del distanziamento dalla realtà, della non accettazione della vita, del cupio dissolvi giovanile e non solo, è troppo presente in questo cosmo per essere affidata alle ali incolte di un pericoloso testo ove far uso di ecstasy ed ogni altro tipo di pasticche non lascia tracce tangibili sul CORPO e dentro i CERVELLI delle protagoniste. Così non è, le cicatrici si imprimono e si scontano. L’uso di sostanze psicotrope gremisce i circuiti, li ingorga.

E non è mai come se non fosse successo, non si può voltare pagina senza vedere anche le carte future pregne di un inchiostro salmastro.

Per questo mi auguro che un simile testo resti non un programmatico manifesto delle libertine del 2000 ma un divertissement di una scrittrice in cerca di fama.

 

SDS.


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