Cultura e Colori: sguardo critico sulla policromia del sapere
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Specchi e rifrazioni abbaglianti per un’autrice
densa di charme.
Panoramica di matrice molto ampia sui vari settori
della cultura letteraria e non. Colori sgargianti tra le penetranti riflessioni
di stampo sempre molto accurato, preciso circostanziato. Colori in fascine cangianti
come mazzi di tulipani freschi e molteplici, dai petali odorosi. Un sapere
elargito nella vivacità e nella volontà di slancio comunicativo. SDS.
Pubblichiamo
una lettura analitica fresca, pungente, circostanziata e sicuramente d’elezione,
del famoso testo di G. Leopardi “Cantico del gallo silvestre”, certi che ne coglierete
le cangianti, plurime ed effervescenti rifrazioni pur nel rigore intellettuale dell’indagine
applicata. SDS.
“IL
CANTICO DEL GALLO SILVESTRE”
Il Cantico del gallo silvestre è
l’ultima delle venti operette del ’24. Scritta dal 10 al 16 novembre, fu
pubblicata per la prima volta nell’edizione milanese del 1827.
Molti commentatori hanno notato che questa
operetta «chiude con una visione apocalittica, la serie aperta dalla
rappresentazione dell’en arch nella Storia del genere umano»
(Galimberti).
Il Fubini, nel fare un raffronto tra
quest’operetta e la Storia del genere umano dice:
come con la “Storia del genere umano” aveva voluto dare
quasi il prologo o il preludio dell’opera tutta, col “Cantico” volle darne
l’epilogo, concedendo, come aveva fatto per la prima operetta, una maggiore
libertà alla propria fantasia e lasciando effondere in una vera e propria
poesia in prosa, i sentimenti che le ingrate scoperte del suo intelletto gli
avevano ispirati.
Nella prima, infatti, aveva inseguito il fantasma della
felicità nel mondo umano. In questa, dopo continua riflessione e maturazione
dei suoi pensieri, ricerca sempre, ma ora nell’universo, quel vano fantasma, cioè
la felicità, di cui adesso conosce la non esistenza.
L’operetta è costruita sull’espediente letterario del
manoscritto ritrovato tra le carte del passato, finzione di cui l’autore si è
valso altre volte: nel Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, l’autore
finge di aver trovato un frammento in un codice, e nell’Elogio degli
uccelli di riportare un elogio scritto dal “filosofo solitario”
Amelio, così fece credere, nel periodo giovanile, di aver tradotto dal greco l’Inno a Nettuno
e di aver scoperto due odi di Anacronte, e alla stessa maniera presenta come
un lavoro del ‘300 il volgarizzamento del Martirio de’ Santi padri del monte Sinai.
Un simile artificio fu caro non solo a Leopardi ma a molti
altri autori, come, per citarne qualcuno, al Cervantes per il Don Chisciotte, allo
Swift per iI Viaggi di Gulliver, al Montesquieu, al
Goethe per il Werther, al Foscolo per le Ultime lettere di
Jacopo Ortis, al Manzoni per i Promessi Sposi, al
Voltaire per parecchi suoi scritti ed anche, per tacere di altri a Monaldo
Leopardi per il Memoriale di Frate Giovanni di Niccolò da Camerino
francescano.
Il Bigi ha osservato riguardo il Frammento di
Stratone, l’Elogio degli uccelli e il Cantico:
il fatto che ipotesi sulla fine della vita e dell’universo
vengano presentate come un mito orientale o come il frammento, sia pure
apocrifo, di uno scrittore greco; o che la simpatia per gli uccelli prenda la
forma stilizzata di un elogio, non corrisponde ad un intento decorativo, ma al
preciso gusto di respingere nei campi delle letterature antiche quelle ipotesi
e quelle simpatie, liberandole così da ogni traccia di personale affetto.
Il preambolo costruito come cornice al cantico, atteggiato a
rigore filologico, insieme ad una certa ironia, descrive il manoscritto
ritrovato come un testo tracciato su cartapecora, in caratteri ebraici e in una
immaginaria miscela di lingue ebraiche con cui il Leopardi ha voluto alludere
in modo scherzoso ai passi dei libri Targum e Talmud (che contengono la
parafrasi della Bibbia) e alla dottrina occulta della cabala, che si
riferiscono alla favola del Gallo silvestre.
E’ bene ricordare che l’Autore aveva studiato fin dal 1813,
la lingua ebraica, di cui era discretamente esperto.
In vari passi dello Zibaldone, Leopardi parla
dell’abbondanza di metafore del vocabolario ebraico e della “selva di significati”
di ciascuna parola. Nello Zibaldone 3564-3568 del 1°
ottobre 1823 dice:
la lingua ebraica è poetica ancor nella prosa per quella
estrema povertà della quale altrove ho ragionato, mostrando come in ciascuna
parola cento significati si debbano accozzare e si accozzino […] non potendo
quasi la prosa ebraica usar parola che non formicolasse di significazioni, essa
doveva necessariamente riuscir poetica.
Proprio sulla base di queste osservazioni, l’Autore ci
avverte di aver usato, nel suo lavoro di volgarizzamento, «la prosa piuttosto
che il verso, se bene in cosa poetica» e «lo stile interrotto, e forse qualche
volta gonfio» proprio per conformarsi allo stile immaginoso e sentenzioso dei
testi biblici. In questo modo l’operetta è impostata con una voluta grandiosità
e gravità dichiarata dal Leopardi stesso, dando al Cantico
una validità antica e quasi sacra.
Un gigantesco gallo, descritto con un certo umorismo, con le
zampe sta sulla terra e con la cresta tocca il cielo, ha uso di ragione ed ha
imparato a parlare come un pappagallo ammaestrato. Ogni mattina questo gallo
comunica ai mortali il senso della loro esistenza, recitando il suo cantico per
ridestarli ala vita e alle sofferenze che essa porta con sé.
La vita è infelicità e dolore prima della morte e del nulla
eterno; il sonno, breve pausa illusoria alle pene dell’esistenza, ne è
un’anticipazione.
La descrizione del gallo riprende le stesse parole di un
passo del Targum:
et gallus sylvestris cuius pedes consistunt in terra, et
caput eius pertingit in caelum usque, cantat coram me.
E ancora, nel Libro di Giobbe 38,36 si trova
scritto:
gallo silvestri
intelligentia est ad laudandum me.
C’è un dialogo di Luciano intitolato Il sogno o il
gallo in cui il gallo sveglia Micillo e crede di fargli un piacere
anticipandogli più che può il tempo, ma mentre il dialogo di Luciano, leggero e
umoristico, mira alla satira dei costumi del suo tempo, Leopardi vuole
dimostrare verità universali.
Inoltre questo gigantesco gallo è come la proiezione di
certi mostruosi animali biblici dai quali Leopardi è stato suggestionato, come
ad esempio nel Libro di Giobbe il terrificante
coccodrillo o l’avvoltoio rapace.
Il Galimberti suppone un’interpretazione da parte
dell’Autore, sulla base della conoscenza di questi della letteratura rabbinica,
del gallo come simbolo solare: il gallo come emblema della vigilanza, del
ritorno all’attività e della resurrezione.
Secondo il Binni, questo gallo silvestre «ha la possibilità
di una voce profetica solenne, spaventosa che, assimilata al canto quotidiano e
festoso dei galli, viene invece ad annunciare la terribile, inevitabile
condanna di dolore e di morte per tutti gli uomini e per tutto l’universo».
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