segue da Sghiribizzi d’Arte
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“Da recenti studi nell’ambito della percezione risulta
che in condizioni di osservazione ambigue i fattori interpretativi personali
interagiscono con maggiore influenza. L’immagine incongrua, che viola le aspettative,
come il filo luminoso che percorre dei profili inesistenti, porta il comune
osservatore ad avviare i consueti processi di riconoscimento ma ne ottiene solo
esperienze di contraddizione e cioè di “conflitto aperto”. Allo stimolo iniziale del vedere il filo di
luci, succede immediatamente il conflitto tra ciò che la mente costruirebbe a
seguito del riconoscimento del filo e ciò che sta vedendo. La scelta del
materiale dall’aspetto luminoso e giocoso favorisce la piena accettazione e l’enfatizzazione
del paradosso di vedere due realtà sovrapposte.
Il processo di saturazione della visione del filo
di luci natalizie genera esigenze, tensioni e aspettative e conduce alla
comparsa di immagini realmente alternative rispetto a quelle che lo hanno
saturato.
Marina Fulgeri crede che la posizione dell’opera,
nella piazza, inserisce l’opera stessa tra le percezioni ambientali che influenzano
la vita delle persone a breve, medio e lungo termine: “Questo lavoro si pone
come una situazione non abituale, ambigua per sviluppare nello spettatore una
reazione di ricerca dei significati dell’opera stessa.”
Col il progetto NO LIMITS l’artista
è patita da una indagine lunga due anni attraverso quei luoghi delle grandi
capitali europee in cui l’inserimento di popolazioni non indigene ha coinvolto
i quartieri storici o centrali, luoghi significativi rispetto alla storia del
vecchia Europa. Una storia di segni e grafemi visivi, insegne di negozi e di attività
ristorative, che riscrivono non soltanto una nuova estetica luminosa – la città
urbana, spazio frenetico, storico, multietnico – ma segnano forse quella che
sarà la caratteristica del nuovo secolo, come nella moderna Francoforte in cui
sotto i grattaceli delle potenti banche tedesche si trovano i ristoranti greci
e turchi in una integrazione che sembra esserci e non esserci, in convivenze
fatte di estraneità.
Attraverso il contrasto netto tra luce
ed ombra, NO LIMITS opera sul concetto visibile/non-visibile: la
negazione caratterizza le zone non-illuminate mentre l’enfasi è posta sulla
simbologia commerciale del contemporaneo. Questa contrapposizione tra ciò che viene
illuminato e il buio, già indagata nei precedenti lavori dell’artista come
“London, East End, May 2003” e “I need a change of air”, è volta in questo
caso a sottolineare un fenomeno sociologico che ha determinato lo sviluppo
delle città in Europa a partire dai primi decenni del ‘900. Così l’artista
presenta il suo lavoro: «Come nei lavori precedenti, il mio intervento,
modellandosi direttamente sul tessuto cittadino, non fa altro che sottolineare
una realtà che di notte diventa chiarissima: altre insegne colorate, altri
ristoranti, altre attività commerciali, occupano ora gli antichi edifici di
Parigi, Londra, Berlino, Milano, Bruxelles».
“I confini tra due cose ce le rendono visibili.
L’annullamento di questi confini fa precipitare
tutto nell’oblio, nel buio, nel nero più totale.”
Le cinque opere fotografiche smarriscono i loro
limiti: inseriti in una stanza dalle pareti nere suscitano nello spettatore una
sensazione di perdita dei confini sia spaziali che geografici, indicano
partendo dal titolo “No limits” la perdita di identità della città.
Così il quartiere bengalese e pakistano di Londra, Brick Lane,
costruito dagli Ugonotti alla fine dell’Ottocento, il quartiere turco di
Berlino, il Kreuzberg, il quartiere africano di Bruxelles, Ixelles, il
quartiere cinese in Via Paolo Sarpi a Milano e quello dell’arrodisement intorno
all’Avenue de Choisy XIII in Parigi, osservati in un unico sguardo ci portano
verso quella che potrebbe essere ogni
singola nostra città fra 30-40 anni. L’annullamento dei confini geografici fa
sì che altre identità storico-nazionalei possano essere inglobate ovunque,
anche in città lontane e socialmente diverse.
Il
dato noto a livello antropologico è che non occorre più risiedere nel proprio
paese per vivere con le proprie abitudini, ripercorrere i propri usi, praticare
il proprio cibo: le inglobazioni di questi usi e costumi nella nuova città
urbana sono diventati uguali in tutto il mondo. L’estetica del contemporaneo ha
preceduto il riconoscimento sociale.
LIGHT DISLOCATION, la terza ed
ultima opera, è un lavoro di luce per lo spazio dell’Arco de’ Becci di Galleria
Continua in San Gimignano. L’utilizzo di un materiale speciale che si carica
chimicamente di luce per poi restituire nel buio l’energia luminosa accumulata,
noto come nastro fotoluminescente utilizzato per segnalare uscite e fughe in
caso di black out, è centrale per comprendere l’opera. LIGHT DISLOCATION
è una dislocazione attraverso la luce di un elemento da un luogo
all’altro. L’elemento è la porta laterale dell’Hamburger Bahnof di Berlino,
ricostruita e ridisegnata a grandezza reale, un oggetto imponente, dai
lineamenti classicheggianti, il contrasto concettuale è la non
possibilità di entrata all’interno dell’edificio, non vi è nessuna serratura,
nessuna maniglia perché la porta reale in stile neoclassico del palazzo
dell’Hamburger Bahnof di Berlino è divenuta all’interno del moderno museo una
porta di emergenza secondaria apribile solo dall’interno. Le linee
architettoniche neoclassiche richiamano così l’ingresso negato.
Ma l’opera, con la sua luce chimica,
falsata, è quasi una visione sacrale, collocabile attraverso l’immaginazione in
quei varchi fantascientifici fra mondi diversi. Al buio la luce rivela cose che
appartengono ad altri luoghi. Così Marina Fulgeri parla del suo lavoro: “Mi interessa
la specificità del materiale ovvero il controsenso di “accendersi” quando si
spegne la luce, un meccanismo inverso: l’opera emerge dal buio e ridisegna
l’interno della stanza, ampliandola con nuove aperture che suggeriscono un
altrove.”
Esistono nel nostro presente contrasti che
sono fessure, entrate negate che costringono a confrontarsi con l’esistenza
della possibilità di accedervi.
RB.
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