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segue da Turchese


Di Massimo Materassi

Leggenda Vietnamita inventata

 

Una leggenda dell’antico Vietnam racconta perché le cose hanno i nomi che hanno, e come quei nomi giunsero agli uomini, e a quelli parve di averli inventati.

Un giorno il dio delle foreste pensò che fosse ora che la sua figliola Agat-Pur imparasse quello che una dea da grande deve sapere, e dal fitto della giungla ombrosa emerse in un alito di vento per chiamare a sé tutti quelli che riteneva buoni maestri per la dea bambina.

Convocò le Nuvole dorate del tramonto, chiamò a sé i Delfini del mare e i Gabbiani del cielo, e le sapienti Scimmie che vivono sugli eterni templi abbandonati, e i Bufali impassibili che sorgono e tramontano sui campi di riso come buoni soli, i Geni delle pietre e i Demoni delle passioni.

-Aspetta qui...- disse alla figlia, e partì alla ricerca di quei docenti.

Agat-Pur era la figlia di un dio, ma non era differente da tutti i comuni bambini per la sua irrequietezza, e la voglia di giocare, e di non star mai ferma. Perché non combinasse guai nella foresta, suo padre la lasciò in cima a una montagna, da dove poteva vedere tutta la ridente terra del Vietnam. A perdita d’occhio si distendevano le risaie verdi come il velluto degli imperatori, il cielo appena spolverato di caligine era profondo, e rimandava dall’infinito del passato l’eco dei grandi monsoni che da infinite stagioni l’avevano solcato. Altri monti si staccavano solitari qua e là dal verde smeraldo delle pianure, scuri giganti piantati da millenni nel vivo della terra erano stati ricoperti dal manto oblioso del padre di Agat-Pur, la foresta che tutto invadeva.

Per un po’ la piccola stette così sospesa fra la Terra e l’Eternità, e poiché le pareva che tutto l’universo fosse attonito nell’affaccendarsi delle creature, volle attivarsi, e fare qualcosa: non aveva mai visto il mondo da lì, e riavutasi dalla meraviglia iniziale cominciò a giocare con tutte le cose del mondo.

Inventò il nome degli isolati ed orgogliosi picchi piantati sul mondo, chiamò i monsoni, i bufali, pensò un nome che designasse gli uomini, e i loro diversi lavori, inventò il nome dei voli degli uccelli, dei moti dell’aria e della musica, del brividi del cuore. Ed ispirò gli uomini: sopra il quaderno di foglie che il padre le aveva dato Agat-Pur tracciò il suono di tutti i nomi (non li poteva scrivere, ancora, era piccina) e con un soffio sparpagliò le foglie nel cielo, e i nomi giunsero agli uomini, ed erano così belli e azzeccati che sentendoli (non li potevano leggere, perché non avevano ancora inventato né la scrittura né la lettura) scordarono affatto i veri nomi delle cose, che le antiche Scimmie avevano loro insegnato tempo prima; e siccome i nomi di Agat-Pur erano nomi inventati da una bimba, erano più morbidi e dolci, e si potevano dire e intendere in mille modi diversi, tanto che da allora pei quattro angoli del mondo non ci furono più due soli popoli che usano gli stessi nomi...

...il padre di Agat-Pur avrebbe dovuto essere furioso, ma pure lui fu conquistato dai nuovi nomi, e dette alla dea bambina un bacione grande grande. Poi permise alle antiche Scimmie di far visita agli uomini sotto mentite spoglie, per vedere se gli antichi nomi “veri” sopravvivevano un po’ di più.

Da allora spesso incontriamo degli insigni linguisti.

 

 

Vera perfezione

 

All’inizio vidi la ricchezza del mondo vivente, il ribollire di forme che si succedono ed intrecciano alla ricerca d’un guizzo di sole nella moltitudine del creato, e fioriscono e scommettono, s’innalzano e cadono in una falsa gara.

Poi presi a chiedermi come si muovessero, e trovai la semplicità del moto, la sua severa essenzialità fatta di punti che passano da un luogo a un altro, superfici che attraversano in silenzio matematico le stanze dello spazio. Mi chiesi fin dove si poteva andare di qua e di là, e notai il mondo come un monumento geometrico, mi fu necessario lisciare tutto, renderlo docile alle linee della mia mente, allo scorrere dei miei parametri che con una carezza gelata passavano sulle forme del vivente e dell’inanimato.

Distesi una coperta bianca di raso continuo su tutto lo spazio, mi mossi su di essa piegandola ai miei potenziali, docilmente quella ubbidì, e ondeggiò e ristette in una danza senza tempo, e quando le curve divennero troppo strette la coperta bianca divenne un continuo solido, e inghiottì il tempo nella sua fissità, mentre cristallizzavo l’incertezza in una gabbia di assunzioni algebriche.

Confusi e livellai tutte le scale, quel che non fui capace di vedere con gli occhi lo disegnai con le simmetrie, in un gioco perverso e perfetto resi tutto simile a una scatoletta di cui bastava contare i lati, e ripetei la danza all’infinito, sinché il mondo non divenne un castello di intuizioni e pensiero puro, esorbitò da quel che avevo mai provato e s’innalzò in un gioco di forme multidimensionali...

...non appena la fine e l’inizio di tutto furono solo due morsi nella coperta liscia, mi guardai intorno e vidi lo sciamare continuo della vita nel fremere delle foglie di un albero al vento, capii di non aver compreso nulla di quelle piccole creature, capii di aver sbagliato tutto, di non poter lisciare la vita, capii che addomesticarne le forme alle mie geometrie sarebbe equivalso a ucciderla. E vidi la fuga del mio pensiero dalla complessità e dalla ricchezza, la ricerca dell’essenzialità come rinuncia all’amore, vidi che correre di più e di più e andare nell’infinitamente grande e piccolo era lasciarsi alle spalle proprio il fremere della vita, il vento che passa fra le foglie degli alberi, la gracilità di un insetto, il fabbricarsi assiduo e incessante degli esseri viventi. Sentii una commozione pesantissima per la mia colpa, ebbi nostalgia dell’indicibile piccolezza di tutti gli esserini animati, tornai col pensiero al sorriso di lei che amava il crescere paziente di una piantina, ebbi nostalgia del manto verde di cui le scabre montagne si rivestono, e non per lisciarsi, ma per vivere, e fiorire, e sopra le rocce spigolose e diverse sorride e vagisce la superficie delle foglie tese al cielo, diverse, mai fisse, tremule, anelanti ad abbracciare il sole, come volessero dire che ci sono anche loro, e questo brulicare di vita inghiotte tutto, lo solletica, l’ingloba, l’assorbe in un nuovo essere, e ci chiama ansioso di amarci.

Così ora mi commuove la fragranza della pelle di una foglia e di una mano, mi perdo nel gioco irripetibile dell’iride negli occhi di chi mi guarda, ricerco l’amore che mi inghiotta come la foresta brulicante cancella le mura antiche, aspetto ancora lei che amava il crescere paziente di una piantina.

 

                 

MX.


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