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segue da Cultura e Colori


Il coro dei morti nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie canta un inno alla morte, la massima aspirazione che l’uomo può ragionevolmente concepire, alla quale «sola nel mondo eterno si volve ogni cosa creata».

In Zibaldone 5-6 Aprile 1825 si legge:

 

il fine naturale dell’uomo e di ogni essere vivente […] non è né può essere altro che la felicità. Ma, il fine della sua esistenza […] non è certamente in nessun modo la felicità né il piacere dei viventi […] piuttosto il contrario.

 

Il tema dell’infelicità, oltre che nelle pagine dello Zibaldone, si ritrova un po’ ovunque in quasi tutte le Operette morali, a partire dalla Storia del Genere Umano che, presentata sotto la forma di favola mitologica, allegorizza il misero destino di infelicità e di morte dell’umanità.

Nel Dialogo di Malambruno e Farfarello in cui alla fine si conclude che «il non vivere è sempre meglio del vivere» si afferma che la felicità non è possibile per l’uomo e che l’infelicità riempie la vita senza pause, se non per brevissimi tratti come durante il sonno.

Nel Dialogo della Natura e di un’ Anima si dice che la felicità non è resa possibile dalla natura, mentre nel Dialogo della Terra e della Luna l’infelicità riguarda il cosmo intero.

Su questa stessa linea il Metafisico del Dialogo di un Fisico e un Metafisico obietta che nella condizione di infelicità permanente meglio sarebbe vivere brevemente.

Ma l’operetta che più delle altre è presente al Leopardi nel Cantico è il Dialogo della Natura e di un Islandese. Il Blasucci infatti, per queste due operette, parla di «un diagramma di svolgimento da una considerazione sensistico-esistenziale ad una considerazione cosmico - materialistica dell’infelicità». Il Cantico riprende a distanza la prospettiva pessimistica svolta in chiave drammatica nell’Islandese «venendo così a dare all’intero corso delle Operette un finale suggello cosmico – materialistico».

Tutta la natura è indirizzata alla morte, ogni parte dell’universo si affretta infaticabilmente, con sollecitudine, verso questa meta. Il gallo dirà:

 

[…] la massima parte del vivere è un’appassire […] La vecchiezza prevale sì manifestamente e di sì gran lunga, nella vita e nel mondo.

 

Infatti il Leopardi, così come nello Zibaldone 152 del 4 Luglio 1820, paragona la sera, triste e scoraggiata per i fallimenti delle speranze, alla vecchiaia, che è la parte più lunga della vita e preludio della morte come la sera, “immago” della “fatal quiete” nella poesia Alla sera, mentre il principio del mattino, più disposto alla speranza, alla giovinezza della vita. Il fiore degli anni, anche se è la parte migliore della vita, è brevissimo e fuggitivo, infatti nella poesia Il sabato del villaggio ammonisce il “garzoncello scherzoso” a non aver fretta di raggiungere l’età adulta.

La maggior parte della vita dell’uomo si riduce in un lento e inevitabile sfiorire, soltanto l’universo sembra immune dal decadimento perché, se anche durante l’autunno e l’inverno si dimostra in declino, tuttavia con la primavera rinvigorisce.

Sembra dispiegarsi qui un contrasto tra la sorte dell’uomo sulla terra e quella degli altri esseri che ricorda il capitolo 14° (vv. 1-12) del libro di Giobbe:

 

L’uomo, debole fin dalla nascita,

vive solo pochi giorni, ma pieni di guai.

Come un fiore sboccia

e poi viene tagliato,

egli, come un’ombra, subito svanisce.

[…]

Perfino un albero abbattuto

ha qualche speranza: 

                    può germogliare e rifiorire […]

 

In realtà la rinascita primaverile della natura è solo un’illusione, perché comunque tutto l’universo invecchia continuamente come i mortali, come dice anche Voltaire nel suo Poema sul disastro di Lisbona: «Striscia, soffre, muore; tutto ciò che nasce spira; della distruzione la natura è l’impero».

Il finale dell’Operetta ha i toni di una conclusione profetica: «tempo verrà che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta».

Verso la chiusa il lessico tende a farsi più liricamente abbandonato, con voci che indicano il dileguarsi delle cose: tutto morirà, anche l’universo, e non resterà forma né traccia di niente, anche le calamità delle cose create si cancelleranno. Soltanto «un silenzio nudo, e una quiete altissima» riempiranno lo spazio vuoto e il segreto dell’universo si dileguerà prima ancora di essere conosciuto.

In questa conclusione sono raccolte molte delle parole care al Leopardi, indicanti in determinatezza, più volte teorizzata nello Zibaldone.

Anche qui si può notare una coincidenza linguistica e di senso quasi assoluto con l’Infinito per il silenzio e la quiete, ma rispondenze di questi termini si trovano anche nella Vita Solitaria e nel finale della Sera del dì di festa (vv. 38-39):

 

Tutto é pace e silenzio, e tutto posa

il mondo […]              

 

E’ una delle conclusioni più risolute e negative: il silenzio adesso è eterno, rispetto all’ipotesi formulata precedentemente («se il sonno dei mortali…»), le note,  con le quali si conclude il grande ciclo del ’24,  sono più terribili e solenni. 

Il Galimberi commenta :

 

Con il cantico Leopardi supera del tutto qualsiasi preoccupazione morale o satirica, per concentrare lo sguardo su un tema metafisico, anzi escatologico.

                                

 

A questo finale Leopardi aggiunse una nota:

 

 

Questa è conclusione poetica, non filosofica. Parlando filosoficamente, l’esistenza, che non è mai cominciata, non avrà mai fine.

 

La ripresa del motivo dell’esistenza governata da leggi cicliche e meccanicistiche  sarà offerta più tardi dal Frammento apocrifo di Statone da Lampsaco che,composto addirittura nel ’25, non a caso verrà inserita nell’edizione postuma dal Ranieri , dopo il Cantico.

Quest’operetta ha goduto di buona fortuna nella critica. Se il Fubini ha qualche riserva sullo stile del Cantico, secondo lui troppo enfatico e intenzionale, con accenti forzatamente poetici, non sono della stessa opinione il Russo che parla di «arte rarefatta e intellettualissima», e il Ruffilli che definisce il Cantico «un vero gioiello di misura e forza espressiva». Il Blasucci, infine, pone l’accento sull’originalità di quest’operetta, ritenendo che il Leopardi abbia instaurato «un  tipo “sui generis” di prosa poetica, ricca di grandiose risonanze, che resta un “unicum” nella produzione letteraria leopardiana».

LB.

 

                      

       Bibliografia 

 

G. Leopardi, Operette morali, introduzione, note e commenti di P. Ruffilli, Grandi Libri Garzanti, 1991.

 

G. Leopardi, Operette morali, commento di Fubini, Torino, Loescher Editore, 1996.

 

G. Leopardi, Operette morali,  proemio e note di G. Gentile, Bologna, Zanichelli, 1918.

 

G. Leopardi, Operette morali, a c. di Galimberti, Napoli, Guida Editori, 1977.

 

G. Leopardi, Le prose morali di Giacomo Leopardi, commento di Ildebrando Della Giovanna, Firenze,  Sansoni Editore, 1946.

 

G. Leopardi, Canti, a c. di E. Ghidetti,  Firenze,  Sansoni, 1988.

 

G. Leopardi, Zibaldone di pensieri (2 voll.), introduzione di S. Solmi e G. De Robertis, Milano, Arnoldo Mondatori Editore, 1998.

 

W. Binni, Dal “Parini” al “Cantico del gallo silvestre” in Lezioni leopardiane, a c. di  Bellocci, Firenze, La Nuova Italia Editore, 1994.

 

L. Blasucci, La posizione ideologica delle “Operette morali”  in  Leopardi e i segnali dell’ infinito, Bologna, Il Mulino, 1985.

 


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