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segue da Poesia



Intervista


P: Sì, è vero. Sono affascinato dall’idea dell’eco. Qualcosa che si protrae e nel suo ribattersi, alla lunga, si modifichi assorbendo le tracce del tempo, sino a spegnersi. Ed a quel punto, sino a scriverne. Chi mi conosce sa quanto io ami i processi di consunzione. L’inventario del mio gusto, metaforicamente, lo puoi frugare nella soffitta di Villa Amarena.

 

I: Ritieni che le tue composizioni siano sottoponibili a “giudizio” oppure quello che ti interessa è la sensazione personale appunto di aver realizzato una vera e propria opera d’arte (uno dei punti cardine dell’estetica è che un’artista sia tale se riesce a rendere necessario il suo operare, e solo lui può sapere come, il fruitore, se in sintonia, sarà colui che riconoscerà questa “necessità” ad esempio della concatenazione stessa delle parole….), di aver realizzato dunque,  qualcosa di necessitato per cui le parole non potevano essere che quelle particolari che vi hai inserito, ponendoti così in una posizione ingiudicabile perché divieni solo tu il metro di valutazione, solo tu puoi sapere come deve o doveva essere quel testo?

 

P: L’unico giudizio a cui tengo è quello delle persone a cui tengo. Non è un gioco di parole. Come ti dicevo, spesso metto in rete testi affinché vengano letti da determinate persone. Talvolta mi è accaduto di ricevere commenti poco generosi da parte di estranei. La cosa mi ha lasciato sempre del tutto indifferente. Ciò può apparire riduttivo, lo so. Ma credo tu sollevi la dibattuta questione del rapporto tra autore e fruitore. Ho letto pagine, spesso articolate e sapientemente elaborate, sull’argomento. Mi sono sempre annoiato. Lasciando da parte quei rari casi in cui entra in gioco una priorità economica, credo, molto banalmente, che prevalga spesso un’esigenza egocentrica. E contestualmente la necessità di voler dimostrare sempre qualcosa a se stessi, una manifestazione in fondo di fragilità che ci rende prodigiosamente umani. Tutto qui.

 

I: Sei solito rielaborare i tuoi testi?

 

P: No. Direi, quasi mai. Anche quello che metto in rete solitamente non ha più di 24-36 ore di vita.

I: Cosa pensi della comunicazione fra esseri umani, la percepisci possibile? se sì quali sono le condizioni perché essa si verifichi? E’ consueta compagna della tua esistenza? E nell’arte che ruolo occupa?

 

P: La comunicazione presuppone un’affinità di linguaggio. Nel testo poetico il linguaggio è un inganno. Deve esserlo, convenzionalmente, per i due “soggetti”, chi scrive, chi legge, affinché le due estremità finiscano per toccarsi dentro la parola aperta. Fruire è sinonimo di assorbire. Per esempio, mi accade di innamorarmi di un testo che leggo. E quando ti dico “innamorarmi” intendo esattamente quel gioco di seduzione e penetrazione che all’improvviso si trasforma in una manifestazione bellica dai tratti dolci e violenti che mi restituiscono alla pagina vinto ed al tempo stesso vittorioso.

 

I: Come stimi l’intentio auctoris, è uno snodo rilevante per te?

 

P: No. Le chiose, le didascalie a piè pagina dei testi liceali di letteratura costituiscono il più alto tradimento al significato di un’opera. Sanciscono il fallimento dell’immaginario. E conducono soprattutto gli adolescenti ad un’idea di “poesia” riduttiva e del tutto fuorviante.

 

I: Nei tuoi testi ultimi osserviamo un virare verso l’indagine dei soggetti “quasi noi”,  dell’elemento relazionale, dell’io e del tu, come esseri terreni e passibili di dolore, di quotidianità che risuona però in un modo esclusivo, speciale, peculiare nell’anima che la recepisce, di carne che con semplicità si avvicina o distacca da altra carne, ne convieni, credo o no? Se sì cosa si frappone a che il noi si concretizzi nella sua pienezza, pare quasi che le tue filiformi dame o alter ego, compiano in delle “asparizioni” alla Caproni, lasciando una scia dell’esserci state, dunque un semi contatto con la loro recentissima presenza, ma essendosi comunque già irrimediabilmente allontanate, una dimensione della loro altrettanto incoercibile assenza, distanza, almeno nel momento in cui le si vorrebbero incontrare nel profondo… (commentami tu questa nota)…

 

P: Bella la citazione, Caproni resta una delle mie letture più amate ed assidue. L’indagine esige il distacco. Le mie donne, quelle che attraversano il mio scrivere, pur essendo state reali sempre, non possiedono un viso peculiare, riconoscibile. Il loro cadere da un divano pomeridiano su una mia pagina serale deforma le loro fattezze sino a farne un ideale che cancelli i miei limiti e le mie inadeguatezze. Come quando scrivo: affinché tu esista sino a scriverne. Ecco, credo che semplicemente quel distacco rappresenti per me un espediente difensivo. Ed al tempo stesso realizzi drasticamente la storia. Il fascino della parola scritta. Un mio testo reca il titolo: scritto su una locandina: amo più la nostra trama di te. Scrivere è un accumularsi progressivo di letture. Scrivere di/su una persona è collocarla in queste concrezioni. Se preferisci, diviene una sorta di fossile. Qui, per me, sta il fascino della parola scritta. Disporre la mia donna tra le pagine o tra i fotogrammi dei poeti o dei registi che più amo.

 

I:C’è una metafora esemplificativa che rappresenti la tua visione del rapporto con l’altro in genere?

 

P: Fingo di capire con l’altro genere. Nei testi che decido di rendere pubblici la figura femminile è dominante, o comunque la costante o sottesa interlocutrice. Mi arrendo alla banale semplificazione che uomo e donna costituiscano due universi paralleli. Anche se talvolta quel “lei” a cui ricorro probabilmente dialoga con quella parte femminile che ho. Una metafora? Meglio uno slittamento di ruoli pianificati: di un lei e quasi io.

 

I: Esiste l’oggettività per te, il cosiddetto “reale” o tutto si dà attraverso le sfaccettature della nostra sensibilità particolare (sempre soggettiva quindi)?

 

P: Esiste quella realtà che noi, attraversando limiti e penurie di significati, riusciamo ad identificare, inventariare. Non mi piace, lo confesso, ridurre tutto alla “sensibilità”. E’ solo una parte intrinseca della visione. Continuo a pensare che un testo poetico sia una miscela tra la nostra sensibilità ed i congegni della sua espressione. E per congegni intendo (prima parlavo di  concrezioni) quelle migliaia di pagine lette che stanno e che devono stare dietro ad un testo. Le citazioni, esplicite o nascoste, rilevate in un testo costituiscono per me quell’istante in cui le affinità giungono ad un definitivo compimento. La fusione amorosa tra chi scrive e chi legge.

 

I: Ci puoi parlare della dimensione del tempo e di quale percezione personale hai del tempo in questo momento della tua vita? Vedi un ordine negli eventi o il caos? Ti spaventa il tempo o ti affascina? Cosa pensi di questo preciso periodo storico?

 

P: Da sempre sono affascinato dagli oggetti di cui si è impadronito il tempo, segnandoli, lacerandoli, svuotandoli. Segnano la nostra inadeguatezza ed al tempo stesso la nostra consapevolezza di essere appartenuti a qualcosa. Di fronte al mio cortile sta un antico palazzo. Sulla facciata numerosi affreschi sul punto di svanire. Tra questi, quattro in particolare appaiono i più sfuocati: i quattro continenti. Il quinto doveva ancora essere scoperto. E’ una fessura sospesa che si apre su un territorio inesplorato. Simula e afferma una terra inconclusa. Ma, nel rarefarsi, i quattro stanno raggiungendo il quinto. E’ un cerchio che si chiude. Ciò che credevamo di sapere si versa nel non saputo, nell’invisibile. Solo a questo punto conosciamo davvero tutto. Insomma, gli oggetti sono un mezzo attraverso i quali muoverci. Il tempo un mezzo attraverso il quale conoscerci.

I: Come vedi il tuo futuro? Riesci ad immaginarti? Ti piace pensare ad esso? Ti destabilizza o rassicura una sua presentificazione a livello di pensiero appunto?

 

P: No, non penso mai al mio futuro.

 

I: D’obbligo chiederti, quanto contino per te nell’ispirazione i riferimenti autobiografici (anche se ai fini del risultato artistico, ovviamente, non hanno alcuna rilevanza)?

 

P: Il riferimento autobiografico è costante. Così come il riferimento alle pagine dei libri che leggo. Negli attimi in cui i due piani si sovrappongono scrivo. Ecco, credo di essere una citazione costante di quello che vedo con gli occhi di altri.

 

I: A proposito credi nel concetto un po’ classico di ispirazione?

 

P: Credo di aver risposto, almeno in parte, appena sopra. Ho bisogno di leggere per scrivere e viceversa. Tuttavia non so se questa sia ispirazione. Né so se davvero esista come atto assoluto e incondizionato della mente. Credo piuttosto che per me conti il modo in cui il “luogo” diventi materia di pagina.

 

I: Chi sono un esempio di poeta e di narratore e anche di saggista se vuoi, non tanto a cui tu ti ispiri, perché secondo me la tua scrittura, come quella di ogni vero artista, è tale solo se poggia solo su se stessa, conscia della propria ineliminabile fragilità e mancanza di fondamento come prerogativa ad anche come forza, ma che ti affascinano, e ti appassionano a livello di gusto?

 

P: Difficile farti un elenco. Anche partendo da Gozzano, attraversando Palazzeschi, Soffici, Evola, arrivando a Pagliarani, Spatola, Costa, sino a Caproni e Sanesi. Tuttavia mi lascerei alle spalle Eluard e Breton, Genet e Bataille. Se poi pensi che il mio nick in rete è prufrock… No, rinuncio. Manca, come vedi, una corsia rettilinea che conduca all’ideale capostipite.

 

I: Che percezione hai della tua esistenza attuale? Come ce la porgeresti descrivendola? Qual è la tinta prevalente?

 

P: Una stanza. Stanza è una parola chiave per me, così come appare spesso nei miei testi. Una stanza dentro un paese che non ha più case.

 

I: E’ importante la passione, ovviamente in senso ampio, nella vita? Quali sono le tue passioni in questo momento? E quali sono state le più importanti nel corso degli anni?

 


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