NOTA CRITICA
Mi trovo di fronte al Testo di Pier Maria Galli, conscia della sua sensibilità, conscia di non potere rendere omaggio completamente ad un autore così sottile, nel tentativo di dare solo una mia lettura, opinabile, o quant’altro, delle poesie contenute nel libro Di un Tu quasi noi.
Incontreremo spesso una “lei” determinante, ma quello che la caratterizza è proprio il non essere affatto, mai, descritta nel soma; forse è come se subito Pier volesse condurci più a fondo facendoci percepire di questa/e lei solo l’essenza, ad un livello di indagine appunto, ove il corpo diventa ininfluente.
Inoltre ciò rende anche possibile che ogni lettore le possa disegnare indosso la sua propria compagna o comunque una donna significativa nella vita. I versi a cui ci accosteremo, sono tutti molto lunghi, o brevissimi: come filamentosi o senza pietà.
Si tramerà dunque un discorso sempre inesausto, come se aleggiasse un desiderio in fondo in fondo inesprimibile e mai sopito; di contro ai ritmi di una potenziale vita frenetica eccoci trasportati in un universo che scorre autenticamente sui ritmi ancestarali dell’uomo. E’ il dipanarsi di rapporti liminari che non prevedono degrado fin nei versi estesi all’istante massimo per questo cosmo. Negli ampi metri si induce come un singolare rapporto con il lettore, anch’esso incompiuto. Quasi un respiro a singhiozzo che tradisce carenza di serenità, di pacificazione reale. Il “tu” è sì la presenza/assenza dominante, come vedremo, ma il noi si compie solo una volta, anche, a mio parere, per l’endemica sfiducia dell’io imperante che continua e continua ad evocare l’oggetto desiderato, ma che irrimediabilmente lo sente scivolare come biglie tra le dita; e non riesce a fidarsi di costei e dei suoi allontanamenti.
il libro si inizia con una citazione da C. Costa ove troviamo già degli elementi cardine di tutta l’indagine successiva: sembra che si chieda, nei versi centrali, un richiamo, una sospensione della ratio giudicante per ritrovarci in territori più volatili, aerei, anche se non meno corposi. Si nota anche un’attrazione/ attenzione al fuori “prepara una finestra” caratteristica che per tutto il libro costituirà il vero alter ego dell’io, sempre in confronto o in contatto estremo con i paesaggi.
Alla fine della brevissima citazione ci si interroga sul passato ed anche questo è un tema che ricorrerà spesso, non tanto come monolite con il quale commisurarsi, quanto come viatico per sensazioni profonde che si snodano quasi magiche sul dorso baluginante del libro di Pier.
Per tutto il percorso si usano in capoverso lettere per lo più minuscole, indice di un sottotono di dialogo interiore dichiarato e nascosto insieme, come se il privato del cuore dovesse in qualche modo essere d’impatto rispettato quale gemma preziosa di un io che ci offre il privilegio di darsi a noi. La prima poesia reca il titolo del libro. Ci presenta un pomeriggio ad un bar come se il protagonista volesse per qualche istante distanziarsi dalla portata della Relazione, e primo, il “lungolago” diviene specchio dell’interiorità con le sue “posizioni interlocutorie” come se l’io percepisse un’incertezza, un disagio “le mie parole fuori moda” che si placa lievemente con il rifugiarsi in un qualcosa di conosciuto, un trascorso non più à la page.
Sembra che l’auctor d’un tratto si appesantisca di quel peso del tempo eluso nella citazione iniziale “ho l’età quasi di tua madre”.
E le risa della lei che finalmente ci si presenta, frantumano i residui di logica del compagno che le interpreta quasi dissacratorie verso se stesso.
Intanto esiste un mondo “intorno” per cui tutto questo non è percepibile, e che continua il suo fluire.
Ma una sorta di nulla presentificato e definito “improvviso”, inaspettato, si tiene come in agguato quasi dovesse rivelare la reale vastità e freddezza di un vetro ghiacciato sul cuore che si dissimula ma non si può fuggire.
Contraddice tale visione la perifrasi “i nostri visi assolati” che apporta una nota di calore e premura in quanto affiancata da un’umile notazione sulla tovaglia disegnata a scacchi.
Ma ciò che è semplice si fa rilevante se è il “tu” a compiere certi gesti anche usuali, anche quotidiani. Il “tu anche attraverso il suo linguaggio amoroso ha il potere indipendentemente dalla locazione, di rendere piena o vuota l’intera parte dell’io che le si porge senza schermo.
La lei in questione attiene a verbi in attivo dunque la rileviamo propositiva, mentre il suo interlocutore talvolta mostra la volontà di ritrarsi un poco, “tu che mi osservi ed io inosservato”, forse per misurare la capacità di trazione della donna, ma il risultato è un vuoto, un momento di astrazione.
Sempre troviamo la volontà di intellettualizzare l’inafferrabile del rapporto e di credere nell’importanza di un filiforme, astratto passato che continua ad assediare. L’io in profondità sa che molto si è detto fra lui ed il tu, che molto è stato vissuto, tanto che alla fine del primo testo quel “quasi” ci suona come un pleonasmo difensivo, un cercare un gancio che resti fermo mentre si tenta di sottrarsi ad un insieme sentimentale che vibra di un altissimo voltaggio.
Nel secondo testo il cui titolo viene citato nell’intervista dallo stesso Pier, possiamo interpretare quel “amo più la nostra trama di te” come una logica conseguenza di amante, in regime di aspettativa infinita se ama davvero, come se recepisse un suo privatissimo gusto del già vissuto, come una sorta di “sabato del villaggio” meno pericoloso del futuro e dunque più catalogabile nella sfera a comparti dei sentimenti. Possiamo immaginare da questo solo sintagma una lei sognata prima e vissuta poi carnalmente, una lei solida e reale che c’è stata contro ogni dubbio ed ogni senso o vertigine di un’idea spesso sfumata e romantica nel senso più deteriore. La lei in questione infatti “non fa più male” perché si è posseduta, ci piace immaginare, in una totalità di anima e corpo.
Il terzo testo (pag.10) ci riporta un viaggio interno/esterno al protagonista che si inizia di nuovo con un bar ed un caffè (per vicinananza sematica ci tornano in mente le famose “latterie” di Caproni ove, come vedremo di nuovo qui, si danno con maggiore impietosità le note “aspraizioni” femminili”).
Ci inoltriamo in un conformismo di contorno che infastidisce il poeta.
Come una marea crea in sé un attimo di respiro trattenuto, dunque di sospensione, anche qui si percepisce la medesima attesa fra qualcosa di “zuccherino” inteso come stridente per l’io. Nella quinta strofetta ciò che abbiamo supposto, ovvero, l’insofferenza di questo corpo senziente, diventa manifesta.
La lei di questo testo per un attimo nel respiro introiettato della marea precedente, si fa come materna e si lascia tranquillizzare dal semplice “rollio di polsi sulla tazza”.
Ma questa donna appare sempre, ovunque come una pellicola esposta, cosa che disturba ad un livello più profondo, di quello che vuol farci credere, il suo uomo.
Nella strofa conclusiva l’io finge che l’atto di “mordere la proiezione”, evidente metafora, del suo voler chiudere tutto ciò che considera proprio o in comune con la lei, in un pertugio privatissimo ove non ci sia bisogno di distruzione, coniugato con l’altrettanto simbolico ultimo sorso del caffè, finge appunto che questo modo sconnesso appena descritto, non lo turbi. Ma la lei della pellicola, la lei del tutto e del niente, la lei che possiede potere sui volti potenziali di lui, lascia dietro di sé una densissima asparizione che produce sapore e fende ogni essente in grado di percepirla. A Pag. 12 troviamo una poesia di ampia portata che inizia con un’equivalenza riflettente il cui senso può essere interpretato come se tutto lo scibile o più semplicemente il mondo conosciuto fosse imbevuto di Lei.
L’equivalenza paesaggio/stato emotivo si palesa in questo testo molto chiaramente. Ed “il giardino si assenta” con il parallelismo di un senso netto di solitudine e come se una forma di esterno per antonomasia “confortevole e rassicurante” come appunto il giardino, lasciasse luogo a sabbie mobili interne che si materializzano con il suo scomparire.
Tutti gli elementi naturali si incarnano di ombre sinistre, e questo perché al verso 8 si rivela che la presente situazione non è che un’assenza tanto sentita da concretizzarsi negli elementi naturali.
Questo tipo di procedimento, anche se in forma totalmente dissimile, mi fa venire in mente un grande narratore del Novecento: Giorgio Saviane, che, per sua stessa dichiarazione, quando glielo feci notare, ammise di far seguire ai mutamenti più netti della storia emotiva dei suoi personaggi, un corrispettivo molto definito nello scenario naturale.
Dall’incerto lago che destabilizza, si passa alla ferocia di sassi screpolati che si snodano e percuotono l’un l’altro, iniziando a formare il corrispondente interiore di lui Che “sente” vibranti le caviglie della sua donna come fossero una fenditura sul suo derma.
Ed un tessuto molle come le umili “gengive” possono subire ulcerazioni, dunque si avverte un sentore definito di insicurezza, ci si sente cioè molto vulnerabili. Ma il desiderio di lei non cessa, mai. Il volto del vuoto che ella nuovamente lascia, produce un nuovo continuo assedio sul presente.
E la singolare sintesi di asparizione che Galli ci rappresenta è di una lei “ che manca dall’assenza” e che dunque esiste e non esiste insieme nello stesso istante, i due poli opposti paiono decisamente coincidere per attimi vitali e determinanti. C’è un passato questa volta davvero corposo in cui i due si sono amati senza fascine di disinganno o paura.
Sempre valutando il testo a pag.12, notiamo un interessante “labbra riuscite a non dire” forse queste ultime si sono autoimposte di non esporsi? O forse lui vorrebbe una passione che lei gli nega ancora nella sua fascinazione di donna che se ne va da un’alcova semivuota lasciandovi però tanto di sé.
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